Visioni

«I figli degli altri», smisurato desiderio di maternità

«I figli degli altri», smisurato desiderio di maternitàV. Efira e C. Ferreira-Gonçalves in «I figli degli altri»

Al cinema Il film autobiografico di Rebecca Zlotowski, presentato in concorso a Venezia, penalizza la protagonista Virginie Efira con un'idea stereotipata di femminilità

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 22 settembre 2022

Rachel, insegnante quarantenne solare e allegra col suo nuovo amore, Ali – un uomo separato che ha un figlia piccolina, Leila – ha scoperto all’improvviso l’ansia della maternità. Da cui è sopraffatta a tal punto da perdere la consapevolezza di sé, riversando le proprie angosce persino sulla figlioletta del compagno «colpevole» di volere accanto a sé la sua mamma «vera». Anche perché tutto intorno è un fiorire di famiglie e di nascite, persino la sorella più giovane di Rachel ha messo da parte le velleità di studi perché all’improvviso incinta – «Sarai una zia meravigliosa» sono le ferali parole per la nostra. E a peggiorare le cose c’è pure Ali che all’improvviso sembra incerto sulla loro relazione e sulla sua separazione… È sorprendente come Rebecca Zlotowski in questa sua «commedia sentimentale» (per dichiarazione della stessa regista) ingabbia e mortifica i suoi interpreti, a cominciare dalla protagonista, Virginie Efira – eroina superbamente indocile e provocatoria per Verhoeven in Benedetta – passando per Roschdy Zem (Ali) e Chiara Mastroianni – nel ruolo dell’ex-moglie addirittura resa grigia.

Nulla sfugge infatti in I figli degli altri a quella rigida forma conservatrice ma pur sempre assai «bobos» che percorre nell’ossessione maternale/famigliare il racconto – con l’eccezione che vale l’intero film del magnifico cameo di Frederick Wiseman nel ruolo del ginecologo della protagonista, l’unico a dispensare la necessaria ironia.

MOLTO AMATA oltralpe dalla critica, Zlotowski (Une fille facile; Belle Épine) costruisce qui una figura femminile permeata dai più prevedibili stereotipi di una certa idea di «femminilità». Tutto possibile, per carità, salvo che la scrittura non lascia mai «respirare» l’intimità del personaggio rendendolo sequenza dopo sequenza quasi un teorema per dimostrare la propria visione del mondo, rispetto alla quale la dichiarata (dalla regista) autobiografia non trova mai una distanza – e anche un po’ di necessaria auto-ironia – per farne materia di narrazione.

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