Un cambio di paradigma potrebbe essere alle porte nella scienza medica. A guidarlo è una pattuglia di fisici, matematici, informatici capaci di maneggiare grandi quantità di dati e capire le relazioni complesse che vi si nascondono.
È ciò che è emerso all’ultima edizione del convegno annuale 4Words. Le parole dell’innovazione in sanità organizzate dall’editore Il Pensiero Scientifico con il supporto del dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio, che si è tenuto il 30 gennaio scorso a Roma.
D’altronde, ogni aspetto della nostra esistenza è rappresentato da una rete, perché gran parte di quello che facciamo si svolge tra «nodi» collegati con «link». Comunichiamo grazie a computer collegati da cavi, ci spostiamo da un luogo all’altro sulle reti di trasporto e noi stessi rappresentiamo i nodi di una rete sociale i cui link sono le nostre relazioni. Può sembrare solo un modo diverso di guardare alla realtà. Ma quando questo approccio si applica alla salute, il suo potenziale è dirompente.

PER CAPIRE da dove nasca la «network medicine», o «medicina basata sulle reti», bisogna fare un passo indietro e spostarci tra scienziati di tutt’altra estrazione.
All’inizio degli anni 2000, un gruppo di pionieri provenienti da vari settori della fisica teorica, tra cui molti italiani, si accorge di un fenomeno misterioso: dati alla mano, le reti si assomigliano tutte. Consideriamo due reti che non c’entrano niente: la rete Internet, in cui i nodi sono i computer e i link sono i cavi che li collegano, e quella degli attori di Hollywood, in cui due interpreti sono collegati da un link se hanno lavorato insieme in almeno un film.
Nonostante sia difficile immaginare due reti più diverse, una volta che ne analizziamo le proprietà matematiche esse sono praticamente indistinguibili. In entrambi i casi vale, infatti, la celebre regola dei sei gradi di separazione.
Inoltre, in tutte e due le reti la maggioranza dei nodi ha pochi link, ma una discreta percentuale di nodi (la stessa in entrambe le reti) è collegata a migliaia di altri. Le stesse proprietà si osservano in campi diversissimi: dalle pagine web alle catene alimentari negli ecosistemi, dalle amicizie su Facebook ai trasporti aerei.
Se in discipline diverse emerge una struttura comune, per studiare le reti non serve essere specialisti di questo o quel settore: meglio essere allenati a capire come l’ordine emerge dal caos. Nei primi anni zero, sono fisici, matematici e informatici a sviluppare gli algoritmi che servono indifferentemente a trovare un’informazione nel web, il punto debole di una rete ferroviaria o lo scienziato più influente in un certo ambito. Gradualmente, queste conoscenze iniziano a contaminare altre discipline. L’espressione «network medicine» però viene coniata nel 2007 da Albert-Laszlo Barabasi, un fisico statunitense di origine ungherese.

UNA DELLE PRIME SCOPERTE degli scienziati che studiano le reti riguarda le epidemie. Nel 2001 altri due fisici, l’italiano Alessandro Vespignani e lo spagnolo Romualdo Pastor-Satorras, scoprono che la struttura comune a tutte le reti è ideale per la diffusione di un virus: grazie alle proprietà delle reti sociali, anche una malattia poco contagiosa può infettare una larga parte della popolazione. Non è un caso se oggi, due decenni dopo quella scoperta, il gruppo di ricerca di Vespignani alla Northeastern University di Boston fornisce le previsioni più accurate dell’evoluzione del coronavirus di Wuhan. «Ormai c’è un intero campo che si dedica all’epidemiologia basata sulla reti. Non studia più solo i contatti tra persone ma anche le reti di trasporto, gli animali e i vettori delle malattie».
A Boston hanno messo a punto un modello al computer che tiene conto di un’enorme mole di dati relazionali e ha previsto con precisione i primi venti paesi del mondo in cui il coronavirus si sarebbe manifestato. «In questi venti anni l’avanzamento del campo è stato fenomenale», racconta Vespignani. «Oggi i modelli meccanicistici si fondono con l’intelligenza artificiale ed eseguire centinaia di milioni di simulazioni è diventata la norma».

OLTRE A APPARTENERE a un rete sociale, ognuno di noi a sua volta contiene un gran numero di reti. In una cellula del nostro organismo, ad esempio, i geni e le proteine corrispondenti interagiscono attivandosi e disattivandosi a vicenda. L’espressione di un gene influenza anche quella degli altri e può determinare il funzionamento sano o patologico di una cellula. Per studiare queste interazioni e capire quali siano i geni più influenti servono algoritmi simili a quelli che cercano informazioni su Internet. Uno dei più usati al mondo lo ha messo a punto una fisica italiana, Paola Paci dell’università Sapienza di Roma. Con la sua metodologia è in grado di trovare i cosiddetti geni «switch», che nella rete dei meccanismi cellulari hanno un ruolo particolare in quanto collegn processi biochimici diversi. «Ad esempio, nel Dna c’è un gene switch chiamato ’fosl1’ che ne disattiva altri quattro», spiega Paci. «Questa disattivazione fa sì che le cellule tumorali del glioblastoma (tra i più difficili da curare) rispondano alla chemioterapia. Ma per capirlo è servito studiare la rete dei geni».

LE POTENZIALITÀ terapeutiche sono evidenti: «le prime sperimentazioni in vitro hanno confermato che il gene rappresenta davvero uno switch e ora si tratta di cercare un farmaco attivo su fosl1». Normalmente lo sviluppo di un nuovo farmaco richiede molti anni, ma grazie alla scienza delle reti applicata alla biochimica i tempi potrebbero accorciarsi.
È la tesi di Harald Schmidt, professore all’università di Maastricht e anche lui presente al convegno 4Words dove ha presentato il suo innovativo approccio alla farmacologia. «Secondo la medicina tradizionale, ogni sintomo corrisponde a una malattia e ogni malattia ha il suo farmaco», dice Schmidt. «Ma se osserviamo l’azione di un farmaco dal punto di vista della sua interazione con le proteine e i geni all’interno di una cellula, possiamo osservare una complessa rete in cui due farmaci sono collegati se interagiscono con gli stessi meccanismi di azione molecolare».

LA RETE PERMETTE di capire quali farmaci usare per bloccare o attivare un certo meccanismo cellulare. «Ci sono malattie con sintomi simili che trattiamo con le stesse terapie, ma che nascono da processi biochimici del tutto diversi. Perciò i farmaci sono efficaci solo in una piccola percentuale e con molti effetti collaterali. L’ipertensione, ad esempio, può derivare da diversi meccanismi cellulari, ma la trattiamo con un’unica medicina e con scarsi risultati».

L’OBIETTIVO DELLA RICERCA di Schmidt si chiama drug repositioning, cioè reindirizzamento dei farmaci nati per curare alcune malattie ma attivi nei meccanismi molecolari all’origine di altre patologie. Definendo le malattie a partire dai processi biochimici e non dai sintomi, è possibile individuare medicine efficaci anche tra quelle disponibili, sviluppate per patologie del tutto diverse. Non è solo teoria. «Il nostro progetto Repo-Trial mira a trovare i farmaci esistenti attivi contro alcune forme di infarto e di arresto cardiaco grazie a questo approccio basato sulle reti», afferma Schmidt. Ci sono case farmaceutiche interessate? Meglio non farsi illusioni: «Studiamo farmaci già disponibili, magari con brevetti scaduti su cui è difficile fare profitti – spiega – le società farmaceutiche non sono interessate a questo tipo di ricerche».