Miele è il nome in codice, nella vita si chiama Irene, ma quella ragazza bella quando lavora diventa invisibile. Nessun deve sapere chi è, nessuno deve mai riconoscerla. Di lei non sappiamo nulla, o quasi. Frammenti: una casa davanti al mare, la corsa in bici nella notte, il padre che vive da solo, la stanzetta da ragazzina in cui ogni tanto si infila di corsa, a prendere qualcosa senza quasi togliere il cappotto. E quel sorriso dolce di una giovane donna che si porta dentro, sua madre. «Ma chi siete, i nuclei combattenti dell’eutanasia»» la schernisce il professore, uno dei suoi «pazienti», che però ha sconvolto da subito le regole. Le persone che si rivolgono a lei, infatti, le deve assistere fino all’ultimo, aiutandole a compiere quel gesto che non hanno la forza di fare da soli: uccidersi perché non sopportano più il dolore, la malattia, la fatica di una vita che non possono vivere. Lui no, vuole fare da sé e la mette alla porta.

Insieme all’amico del cuore (Libero De Rienzo) Miele ha messo su questa strana società, che solleva i malati terminali dalle sofferenze. «Quello che facciamo è importante» asserisce convinta. La gente li chiama, lei vola spesso in Messico dove compra i barbiturici letali qui proibiti. Il malato sceglie il rito, la musica, le ultime cose. Lei li prepara e ripete come un mantra che possono sempre interrompere tutto. Nessuno lo fa però.

«Che lavoro di merda che fai» le dice con un poco di disprezzo la sorella di un assistito (Iaia Forte). Sarà il precariato dei tempi, o quei due anni di studi interrotti di medicina, o forse soltanto il ricordo ossessivo del dolore patito dalla mamma morta malata a cui lei ha assistito impotente. Chissà. Miele però tiene separati gli scomparti, la distanza necessaria per non soccombere. Da una parte la morte, dall’altra la veemenza della vita, il sesso con il suo amante, le nuotate nell’acqua gelata del mare, il silenzio, la seduzione. E il cuore che ogni tanto fa un tuffo. Ma quell’uomo, il professor Grimaldi, con la casa piena di libri ha imploso tutto. Non è malato, anzi come le dice – con l’ironia carezzevole di Carlo Cecchi, sublime – è sano come un pesce. È solo stanco di vivere. E dunque? Perché morire? Lei non lo accetta, quella che lui chiama «malattia invisibile» per la ragazza è intollerabile.

«Non vado in giro a ammazzare la gente» grida sul ponte di una Roma spezzettata come la sua sicurezza. Già. Però quale è il crinale del distinguo, cosa si può e cosa non si può fare? La malattia come sofferenza del corpo che, la rimprovera il professore la fa sentire una brava «suorina» nel giusto? O i fantasmi che le si agitano dentro, quella stessa solitudine, paura, stanchezza che riconosce in lui e in se stessa?
L’opera prima di Valeria Golino (al prossimo festival di Cannes, nel Certain Regard il 17 maggio), ispirata al romanzo di Mauro Covacich (A nome tuo), di cui la stessa regista ha scritto la sceneggiatura insieme a Francesca Marciano e a Valia Santella, dispiega un confronto con una materia delicatissima, ambigua, piena di ombre a cui la regista non si sottrae, anzi vi si addentra senza retorica, con il pudore e la discrezione di cui ha bisogno, e soprattutto senza giudicare perché non si tratta di dire cosa è giusto e cosa non lo è quando si parla di sentimenti, di sofferenza, di malattia.

La sua dimensione morale è qui, ed è una scelta forte, che manifesta anche nelle sue incertezze (un finale di troppo) un nuovo segnale di cambiamento nel nostro cinema, il guardare verso altre storie, fuori da un sistema «consolidato» (pensiamo a La città ideale di Lo Cascio o a Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi). Le immagini di Golino, complici la fotografia calda/fredda di Gergely Poharnok, e il montaggio che sembra un respiro di Giogiò Franchini, vivono libere. Non siamo in una macchina spirituale programmatica e sovrastante, che cerca di schiacciare con il suo autoritarismo lo spettatore, il terreno su cui si muove il film è invece quello dell’umano, è lì che vivono lo scontro, e la passione tra i due protagonisti, il loro interrogarsi, che è quello del cinema, a cui non può bastare una sola risposta. Golino incolla la macchina da presa alla sua protagonista – Jasmine Trinca presenza fortissima – e nella sua fisicità rende visibile la contraddizione degli interrogativ aperti dal professore a cui forse non c’è risposta. Se non la nostra fragilità che è quella dei nostri desideri, ciò che vorremmo e ciò che è. Impalpabile come il mistero che ci portiamo dentro.