L’ufficio di Silvia Cipriani è un cumulo di macerie. Fino al dicembre del 2008 ci lavoravano in dodici. Silvia era addetta agli orari dei voli, organizzava le frequenze e incastrava coincidenze. Dopo il passaggio della compagnia alla Cai e la ristrutturazione che lasciò a casa 10.034 persone lì dentro rimasero in otto. Altri settori furono invece smantellati. Oggi non c’è più nessuno: tutto l’edificio C dell’ex centro direzionale Alitalia della Magliana, sulla via per l’aeroporto di Fiumicino a Roma, appare imploso, come minato da un male che distrugge irreversibilmente gli organi vitali lasciando intatte le fattezze esteriori. Dall’esterno è visibile lo stato di abbandono, meno lo sfacelo interno. Il logo della compagnia è intatto, il verde-Alitalia non è sbiadito e si mescola alle erbacce che crescono dappertutto e si infiltrano tra le crepe del cemento. Una scala esterna finisce in una specie di giungla, il centro congressi è sbarrato, in un parcheggio desolatamente vuoto sono parcheggiati un divano scassato e un’automobile spolpata. L’intera area è ridotta a una discarica abusiva.

Il centro direzionale, altezzosamente edificato su una collinetta, ha lo stesso stile architettonico del vicino aeroporto. Abbandonato dall’Alitalia dopo la gigantesca dismissione del 2008, quando l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi chiamò un pugno di «capitani coraggiosi» a rilevare la compagnia di bandiera, è oggi riutilizzato solo in parte e ospita le sedi di alcune multinazionali. Leggo all’ingresso della palazzina A: Mazda, Eurobet, Land Rover, Jaguar, una finanziaria anglosassone. I parcheggi qui sono pieni, i dipendenti giungono al lavoro e si infilano nei cancelli senza prestare attenzione al disastro che li circonda. A pochi metri un’agenzia immobiliare costruisce e vende appartamenti nuovi di zecca. Il resto è in decomposizione.
È la prima volta che Silvia Cipriani torna nel suo ufficio dal giorno in cui la ruota della roulette dei licenziamenti si fermò proprio su di lei. Era il 13 dicembre del 2008, «in quella settimana lavoravamo tutti in un’atmosfera surreale», come condannati a morte in attesa della sentenza, ricorda. Il telefono squillò, dall’altro capo una voce la invitò ad andare in amministrazione. Si trattava di firmare per andarsene in cassa integrazione, senza neppure poter tornare a riprendersi le sue cose. «Quando arrivava la telefonata andavi su a firmare e uscivi direttamente. Pensa che agli assistenti di volo la comunicazione è arrivata via mail», ricorda. A rievocarla ora, a cinque anni di distanza, in questo sfacelo che andrebbe visto con i propri occhi per essere compreso a fondo, la scena va immaginata con uno sforzo di fantasia. In questo modo lasciarono il proprio posto di lavoro poco più di 10 mila dipendenti. Solo una parte di loro riusciranno a tornare in azienda: in 7 mila rimarranno definitivamente fuori, «overbooked», come ironicamente si definiranno paragonandosi a quei viaggiatori che, pur in possesso del biglietto, vengono lasciati a piedi dalle compagnie aeree perché per loro non c’è posto. È questo il motivo per cui dal suo ultimo giorno di lavoro Silvia non ha più messo piede qui.

«Questo luogo diventerà un cimitero popolato di fantasmi». Così dichiarò al Corriere della Sera una dipendente della compagnia di bandiera quando cominciarono a esser resi noti i dettagli del piano che avrebbe azzerato interi uffici e ridimensionato diversi settori. Era il 2004 e ministro era Pietro Lunardi, berlusconiano. A quasi dieci anni di distanza, terminata la cassa integrazione e con la mobilità già consumata per metà, negli ex nuovissimi uffici della Magliana lo scenario è da the day after, post-atomico. Nel grande deserto della deindustrializzazione italiana, questo arto in disfacimento dell’aeroporto di Fiumicino è uno dei luoghi simbolicamente più importanti: in un mondo in cui la libertà di circolazione è quasi assoluta, dà l’idea dell’immobilità mortale che paralizza l’intero Paese. I viaggiatori che ogni giorno affollano lo scalo romano non ne hanno sentore, ma la cancrena, lascia intendere il segretario regionale della Cgil Claudio Di Berardino, potrebbe presto estendersi all’intera struttura, come un male incurabile.
Tutto ciò che poteva essere smontato e rubato lo è stato, il resto è completamente distrutto: vetri infranti, il tapis roulant fatto a pezzi, la mensa sfasciata. Silvia ha invece provato a ripartire da zero. Faticosamente perché, ammette, «il disagio psicologico è stato enorme», ancora più forte di quello economico. «Ero cresciuta con l’idea del lavoro che ti accompagna fino alla pensione, invece alla soglia dei cinquant’anni mi sono trovata con un’identità da ricostruire e un’enorme difficoltà a ricollocarmi». Non si è persa d’animo, ha rispolverato la laurea in Psicologia che aveva nel cassetto, ha seguito un corso di perfezionamento come terapeuta e ora presta tirocinio gratuito in una clinica del suo quartiere, l’Aurelio, assistendo pazienti schizofrenici. Ha anche provato a cercare un lavoro nel suo settore ma, racconta, «quando mi sono presentata a un colloquio come bigliettaia alla Qatar airways, mi hanno chiesto perché accettavo di fare così tanti passi indietro rispetto alla mia professionalità, e comunque non mi hanno preso perché per quelle mansioni preferiscono assumere persone molto giovani».

A cinque anni dal più grande licenziamento di massa della storia italiana, quasi nessuno dei cassintegrati dell’Alitalia ha ritrovato un lavoro. Non sono serviti a molto i corsi di formazione: nell’Italia della Grande Crisi è difficile trovare qualcuno che abbia interesse ad assumere lavoratori qualificati ma allo stesso tempo ritenuti troppo anziani. Solo i piloti, grazie alla loro altissima professionalità, sono riusciti a ricollocarsi agevolmente, in genere nelle compagnie arabe.

Eppure, nel grande inverno dello scontento italiano è passato il messaggio che i cassintegrati dell’Alitalia sono dei «privilegiati», visto che lo Stato ha concesso loro quattro anni di cassa integrazione e tre di mobilità, più un bonus aggiuntivo preso da un Fondo volo alimentato da una tassa sui biglietti che ha permesso di conservare l’80 per cento dello stipendio che percepivano. Silvia non ci sta: «Ci hanno trattato meglio di altri, è vero. Ma è stato il prezzo da pagare per mettere fuori così tante persone senza creare un gigantesco problema sociale». Quando è stata messa alla porta guadagnava 1.400 euro, suo marito è un esodato dell’Eni e il rischio è che, tra un paio d’anni, quando saranno finiti tutti gli ammortizzatori sociali, il loro reddito sarà pari a zero.

L’emergenza è così grave che la Provincia di Roma, preoccupata dalle difficoltà di reinserimento, ha interrogato un campione di cassintegrati per studiarne bisogni e desideri, cercando di offrire loro una via d’uscita dalla depressione incombente. Hanno risposto in 158, sostenendo «di avere un gran bisogno individuale di riprendere in mano la propria vita professionale». «Caratterizzazione comune è stata l’impossibilità di comprendere le logiche sottese alle scelte subite: le narrazioni dei percorsi professionali svolti in Alitalia e il racconto della fine di questi sono stati spesso fonte di forte emotività alla quale era importante far seguire una dolorosa accettazione della realtà. Superato il momento della “elaborazione del lutto”, tutti sono stati presi da una vera e propria voglia di fare, per cercare di andare oltre la nebbia della cassa integrazione», si legge nel dossier allegato al questionario. La stragrande maggioranza, il 73 per cento, ha dichiarato che preferirebbe svolgere un lavoro dipendente piuttosto che autonomo, una tendenza che decresce con l’aumentare dell’età. Quasi tutti si sono dichiarati disponibili a svolgere tirocini formativi in qualsiasi settore, dalla ristorazione al turismo, passando per le energie rinnovabili, a dimostrazione di una grande duttilità e voglia di ricostruirsi un futuro. Quasi nessuno però rinuncerebbe al sussidio statale «a qualsiasi condizione» pur di ricollocarsi. Segno che la fiducia nella possibilità di trovare un lavoro stabile e soddisfacente si approssima allo zero.
Silvia, psicoterapeuta nella Grande Depressione italiana, ritiene che quando si è costretti a cambiare identità così radicalmente si scoprono risorse sconosciute innanzitutto a se stessi. Ma la crisi, al di là dei facili slogan, può essere trasformata in un’opportunità, nell’Italia di oggi?

Per quanta buona volontà si possa avere non è facile reinventarsi, per un cinquantenne o poco più, in un Paese che di opportunità ne offre ben poche. Luciano Borzelli mi accoglie in tuta e scarpette davanti al teatro Palladium di Garbatella a Roma, il suo quartiere. «Qualche anno fa mi avresti incontrato in giacca a cravatta. Quando sono uscito dall’Alitalia ho bruciato tutti i vestiti», sorride sarcastico. Luciano era responsabile del personale, aveva uno stipendio migliore di tanti altri e da un giorno all’altro si è ritrovato dall’altra parte della barricata. Ma non ha accettato di andar via senza sbattere la porta. A differenza di Silvia, che ha approfittato del licenziamento per cambiar vita, lui sogna di poter riprendere il suo posto o comunque di rientrare in azienda. Si è rivolto al giudice chiedendo il reintegro, ma la sua causa, impantanata nella palude della giustizia civile italiana, è stata calendarizzata al 2014. Con un gruppo di altri cassintegrati, poi, ha elaborato un progetto per tornare a lavorare per l’Alitalia non direttamente, bensì in outsourcing. Il modello a cui pensa è quello della Parmalat, dove «operai e manager si sono tirati su le maniche e hanno rimesso in piedi l’azienda». Il sistema, a suo dire, potrebbe essere quello di creare delle cooperative che prendono in appalto dei servizi, con l’obiettivo di «costruire un centro attrattivo d’eccellenza». Secondo Luciano tra i lavoratori e i cassintegrati della compagnia ci sarebbero tutte le competenze necessarie per costruirlo, anche perché si tratta di lavoratori qualificati e che per di più conoscono l’azienda. Basta volerlo. «Qui avevamo quattro catene di manutenzione degli aerei, lavoravamo anche per compagnie straniere», spiega, «ora invece a Fiumicino si fa solo la manutenzione light», sostanzialmente il controllo di routine nei 40 minuti di scalo dei velivoli. «Ho lavorato per 25 anni solo a progetti di efficientamento, come venivano definiti i tagli, e mai di sviluppo, però nel frattempo sono state duplicate strutture e manager. Ecco quali sono i risultati». dice ancora. E commenta con una punta d’amarezza: «Peccato, perché eravamo più avanti di altri».

Non è ancora chiaro se ai «capitani coraggiosi» berlusconiani si sostituiranno gli arabi di Etihad o una cordata franco-olandese composta da Air France e Klm. Quel che è evidente è che, per essere attraenti di fronte al migliore offerente, sono necessari ulteriori tagli. L’amministratore delegato Gabriele del Torchio, presentando l’ultimo piano industriale legato all’aumento di capitale che ha visto le Poste italiane sborsare 75 dei 300 milioni complessivi, ha assicurato che non ci saranno ulteriori licenziamenti. Le cifre sono però impietose: sono previsti 128 milioni di risparmi sul costo del lavoro e, anche se non ci saranno riduzioni di personale, si farà ricorso alla cassa integrazione e ai contratti di solidarietà, per una quota pari a 1.600 lavoratori. Sarà ridimensionata anche la flotta: undici aerei rimarranno a terra. È la conditio sine qua non per rendersi appetibili agli occhi del capitale internazionale, rassegnandosi a diventare, logisticamente parlando, periferia della periferia. Svenduti al miglior offerente nel grande mercato della globalizzazione.
Se la prospettiva è questa, un eventuale piano di riassorbimento dei cassintegrati avrebbe necessità di una grande volontà politica per avere qualche chance di successo. Idem per la suggestiva proposta di creare un «centro d’eccellenza»: senza un’idea di rilancio e un forte investimento anche pubblico non se ne farà nulla, come dimostra lo stato di abbandono in cui si trova il centro direzionale della Magliana. Il comitato dei lavoratori «overbooked» ne è consapevole. Ha stilato un lungo dossier sugli errori dell’Alitalia e del consorzio Cai che ne ha raccolto l’eredità, chiedendo alla Regione Lazio di «non abbandonare questi lavoratori a se stessi», riqualificandoli, aiutandoli a ritrovare un lavoro, sia esso nella compagnia di provenienza o altrove, oppure sostenendoli nella creazione di nuove imprese.
In attesa che ciò accada anche Luciano, come Silvia e altri ex dipendenti della compagnia di bandiera, ha provato a inventarsi una nuova attività. Ha seguito un corso da chef, con l’intenzione di «andare a cucinare a domicilio». Un’idea buona, anzi ottima. Sarà sufficiente quando, a metà ottobre del 2015, finita la mobilità si ritroverà a dover sbarcare il lunario fino alla pensione?