È curiosa la storia dei leader jihadisti. I vivi vengono dati per morti. I morti sono tenuti in vita. Oppure vengono creduti vivi. Altri sono vittime dei compagni di un tempo. Osama bin Laden, lo sceicco saudita fondatore di al-Qaeda, è morto decine di volte.

Fino a quando non è stato fatto fuori, nel maggio 2011, da un commando di Navy Seal statunitensi nel covo di Abbottabad, in Pakistan. Eppure c’è chi ancora non si rassegna alla sua morte. «È stata una messinscena», ripetono in tanti. Lo stesso vale per il meno conosciuto Mokhtar Belmokhtar. Una lunga militanza nei gruppi islamisti algerini negli anni Novanta, il leader di al-Murabitun – alleato con al-Qaeda nel Maghreb islamico – viene dato per morto una volta ogni sei mesi. Per poi rispuntare puntualmente con un nuovo attentato e un nuovo comunicato. Come fa anche Abu Bakr Shekau, già leader di Boko Haram, il gruppo terroristico che, con l’affiliazione allo Stato islamico nel marzo 2015, è diventato Provincia dello Stato islamico in Africa occidentale. Shekau è già morto almeno una dozzina di volte. Ma continua a farsi vivo a intervalli regolari, per rivendicare la leadership che gli è stata sottratta da Abu Musab al-Barnawi.

Tra le vittime del «fuoco amico» rientra invece Abdallah Azzam, l’inventore del mito dei mujahedin afghani e della corrente martirologica e salvifica del jihad, lo stratega e ideologo che, insieme a Bin Laden, ha fondato a Peshawar negli anni Ottanta l’Ufficio servizi, «l’anagrafe» dei giovani arabi che volevano combattere contro l’occupazione sovietica. È saltato in aria nel novembre 1989. Venti chili di tritolo che molti attribuiscono alla regia dell’ex sodale Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano attuale numero uno di al-Qaeda.

Diversa la storia del leader storico dei Talebani, mullah Omar. Nel luglio 2015 gli studenti coranici lo hanno ammesso: «Il mullah Omar è morto». Ma la notizia è stata tenuta nascosta per almeno due anni. E il leader tenuto in vita, fittiziamente, con una serie di comunicati che portavano la sua firma. Un cadavere scrivente. Un burattino animato, di volta in volta, da colui che ne avrebbe preso il posto, mullah Akhtar Mohammad Mansour, polverizzato da un drone americano nel maggio 2016 mentre viaggiava, di ritorno dall’Iran, nella provincia pachistana del Beluchistan. E subito sostituito dal clerico Haibatullah Akhundzada.

Se dunque ieri mullah Omar, morto, veniva spacciato per vivo, oggi il Califfo, vivo, viene spacciato per morto. La notizia che sia stato ucciso il 28 maggio dai russi nei dintorni di Raqqa non trova ancora conferme ufficiali. È possibile, ma poco probabile. Poco probabile che il Califfo fosse a Raqqa, appena prima dell’inizio dell’operazione a guida Usa per riconquistare la città. Improbabile che partecipasse a un’affollata riunione del suo Consiglio militare. Impossibile che sia morto il 28 maggio e poi nuovamente il 10 giugno, secondo quanto riferito pochi giorni fa dal regime di Assad.

Sulla sorte di al-Baghdadi, quindi, molti dubbi e poche certezze. Quella definitiva non può che arrivare dagli organi ufficiali dello Stato islamico, che non hanno mai nascosto le morti dei propri martiri eccellenti, rivendicandole anzi come eroiche ed esemplari. Vale per Abu Mohammad al-Adnani, il portavoce del gruppo e il regista delle operazioni estere, che nell’estate 2016 è «smontato dal suo destriero per unirsi alla carovana dei comandanti martiri». E vale anche per Tarkhan Batirashvili, alias Omar il ceceno, alias Abu Omar al Shishani, il ministro della guerra dell’Is, ucciso nel luglio 2016 «mentre partecipava ai combattimenti per respingere la campagna contro la città di Mosul», recita il comunicato dell’agenzia Amaq.

La notizia della presunta morte di al-Baghdadi ci dice comunque due cose importanti: la prima è che, come per gran parte dei leader jihadisti, la forza simbolica e mediatica del Califfo sta nel sottrarsi, nel centellinare le uscite pubbliche (l’ultimo messaggio è dello scorso novembre), nella postura evanescente e fantasmatica. Una sorta di deus absconditus, che manifesta la sua presenza nell’assenza. La seconda è che i leader contano, ma fino a un certo punto. Quando Abu Musab al-Zarqawi, il padre putativo dello Stato islamico, venne ucciso nel giugno 2006 nei pressi della città irachena di Baquba, l’intelligence occidentale era convinta che il suo gruppo fosse ormai sconfitto. Quattro mesi dopo venne annunciata la nascita dello Stato islamico in Iraq, il primo embrione statuale del futuro Califfato. Lo stesso è accaduto con al-Qaeda. Nel 2011, con la morte di Bin Laden, l’allora segretario alla Difesa Usa Leon Panetta annunciava la «sconfitta strategica» di al-Qaeda. Oggi l’organizzazione è più forte di allora. Più forte perfino dello Stato islamico, che in Afghanistan ha comunque conquistato le grotte di Tora Bora. Il vecchio rifugio di Osama bin Laden.