Che cosa è per me la pittura? È la vita, è tutto ciò che mi attornia… la pittura è un’espressione umana…”

Alto e magrissimo, lunghi capelli bianchi, occhi trasparenti e pensosi, modi da gran signore, nel settembre 1986 il maestro Paul Delvaux aveva quasi novant’anni. Nonostante l’età stupiva per la sua chiarezza e la purezza quasi infantile.

Nella tarda estate di quell’anno ero partito con l’artista Enrico Baj alla ricerca dei grandi “vecchi“ del Surrealismo. Dopo Delvaux ci aspettava a Parigi André Masson, un altro pezzo importante della storia dell’arte del Novecento. La nostra prima meta era Veurne, una cittadina delle Fiandre dove abitava Paul Delvaux.

Lungo la superstrada che costeggiava l’Oceano Atlantico, grigio e corrucciato, il paesaggio era desolato e irreale. Le dune di sabbia macchiate da rari bassi cespugli color cenere erano usurpate da edifici inverosimili: ristoranti a forma di nave, strane torri di avvistamento, mulini modernisti che erano tutt’altro che mulini, agglomerati immobiliari dalle forme più strane, bestie di plastica mastodontiche. “Sembra di stare in un quadro surrealista”, commentò Enrico Baj osservando il paesaggio.

Paul Delvaux ci aspettava seduto a un tavolino all’esterno del suo museo di Sint-Idesbald intabarrato in un trench, con un cappellino beige calato in testa. Si alzò un po’ a fatica per salutarci e si scusò di non averci invitato nel suo studio-casa di Veurne, che si trovava vicino al Grote Markt, una piazza dalla straordinaria architettura rinascimentale fiamminga con contaminazioni gotiche e barocche. Ci raccontò addolorato che la moglie, l’adorata Marie detta “Tam” era gravemente ammalata.

Anche la casa di Delvaux a Veurne era diventata parte della Storia dell’arte. Pare che il sogno della vita dell’artista fosse quello di dipingere un quadro in cui vivere. Forse per questo aveva raffigurato la sua casa in un famoso quadro. Un doppio sogno in cui vivere.

Nelle sue opere era sempre raffigurata una donna misteriosa. Vennero fatte molte congetture su chi fosse. In realtà la donna nei quadri era la moglie, Anne Marie de Martelaere, di cui si era innamorato perdutamente nel 1929, ma che i genitori, il padre Jean avvocato di Bruxelles, e la madre Laure Jamotte, soprano lirica, gli avevano impedito di sposare imponendogli un’altra donna. Delvaux continuò a dipingerla nei suoi quadri e dopo la fine del primo matrimonio, realizzò il suo sogno: nel 1947 ritrovò Marie e la sposò nel 1952.

L’artista ci offrì dei boccali di birra scura molto forte: “Tutti i giorni beviamo birra leggera, ma questa è per l’aperitivo…” disse ridendo. Abbasso poi gli occhi pensoso, “Vorrei ancora ritornare in Italia ma, sfortunatamente sono troppo vecchio. È un vero peccato! Mia moglie non può più viaggiare. Vorrei rivedere Pompei, Roma, Ravenna, Firenze. A Ravenna rimasi molto…molto impressionato dalle chiese, dai mosaici… ah Ravenna!” disse con un sorriso malinconico. “Ormai l’unico legame con l’Italia sono i maccheroni che mi ostino a mangiare ogni giorno”

Anche se era considerato uno dei più grandi artisti del Surrealismo, volle precisare prima di ogni altra cosa la sua totale indipendenza artistica: “Breton non l’ho mai conosciuto. Eluard l’ho conosciuto molto poco e Magritte non l‘ho frequentato molto, ma più di Eluard. Ho creduto, a un certo momento, nel valore poetico del movimento. Credo abbia portato a qualche cosa di strano. Forse una poetica nuova…”

Nonostante avesse conosciuto poco Eluard alcuni versi del poeta francese sembrano calzare a perfezione con l’immaginario di Delvaux: “Grandi donne nude che annullano il deserto / questo mondo è sotto il dominio della carne gloriosa. / Tutto in un istante è ridotto all’abbandono / del riflesso di una gonna in uno specchio vuoto…”

Gli chiedemmo se avesse letto o se fosse stato influenzato dalle teorie di Freud come altri artisti surrealisti? ”Non è ciò che mi interessava. Mi interessa la poesia, il colore e il disegno…” rispose secco. Anche se le sue opere appaiono oniriche, non collegava la sua arte al sogno. ”Se ho Il desiderio di dipingere una certa immagine, ad esempio le donne che scendono la collina de ‘La via per Roma’, non ho bisogno di averlo sognato è sufficiente di averlo immaginato…” disse con convinzione.

La pittura automatica, lo spaesamento, le trasposizioni d’immagini del sogno, le teorie sull’inconscio e sull’attività onirica suscitate dai testi freudiani, che Breton definiva elementi basilari dell’arte surrealista, pare non lo interessassero. “Un quadro, lo si fa per sé stessi, ma quando è finito altri possono dare un’interpretazione totalmente differenti dell’opera. E anche queste sono valide. È interessante che un quadro possa dare luogo a interpretazioni differenti.” Le sue opere però erano di una raffigurazione visionaria, pervase dal mistero e dall’ignoto e dalla sospensione del tempo, tutti elementi del Surrealismo. “Nelle mie opere il tempo sembra fermato, ma fatalmente si ferma il tempo anche fissando una figura in un paesaggio. Ogni quadro è una scena di tempo fermato…” E aggiunse: “Per l’artista la ‘terza dimensione’ nell’arte è solo ‘la profondità’ dell’immagine.” E della “quarta dimensione” metteva in dubbio l’esistenza.

All’inizio della sua carriera guardò a Constant Permeke e James Ensor, ma la sua predilezione andava alla Metafisica, a Giorgio De Chirico che aveva avuto modo di incontrare a Parigi nel 1927. Racconta l’artista che si guardarono a lungo, ma seppero dirsi solo “ buongiorno!”

Le opere di De Chirico, la ricerca spazio-temporale del maestro della metafisica influenzarono notevolmente Delvaux.

Fu affascinato fin da piccolo dai treni fermi in stazione, dai piccoli tram della sua cittadina, dalle donne eteree e misteriose e dai racconti di Jules Verne.

Quando era un giovanetto subì un destino tragico di drammi e sofferenze. Nel 1914, a soli 20 km c’era il fronte di Ypres, la città che diede il nome all’iprite, il micidiale gas tossico “mostarda”, dove vennero combattute cinque grandi battaglie della Prima guerra mondiale tra gli alleati e l’esercito tedesco. Anni dopo vide passare a due passi da casa un’altra guerra ancor più devastante. Passato il confine con la Francia, a una quarantina di chilometri, c’è Dunkir (Dunkerque) luogo della resistenza furiosa delle truppe inglesi e francesi all’avanzata nazista durante la Seconda guerra mondiale. Delvaux non partecipò alla guerra, ma ne fu profondamente colpito. In quegli anni dipinse molte tele, angosciate e surreali, con scheletri e deposizioni. Una di queste la intitolò “Aspettano la liberazione“. Fece una cinquantina di tele con gli scheletri: “È stato difficile, perché gli scheletri non sono facili da disegnare… e ho cercato di fare degli scheletri piangenti…”

Aveva dipinto in tutta la sua carriera solo 370 opere, quasi tutti capolavori. “La vista non mi aiuta più. Dipingo per il mio piacere di dipingere, non lo faccio a vedere a nessuno…”

Poi Delvaux ebbe un sussulto. Ci guardò e chiese: “Conoscete Federico Fellini?” Baj ripose che lo aveva conosciuto per via di una cartella di opere grafiche dedicate al regista da vari artisti.

Un giorno ho visto “Roma” di Fellini, un film che ho ammirato più di tutti. Mi sono detto, un giorno farò un quadro, un omaggio a Fellini. “Roma” è un film meraviglioso, il più bello che ha fatto. La storia degli affreschi che trovano nel sottosuolo, mentre costruiscono la metropolitana di Roma, affreschi che quando li vedono si cancellano. È bello, è bello….” disse Delvaux con emozione. Baj gli spiegò che la scena era ispirata alla Casa di Nerone: ”La parola ‘grottesco’ viene dalla parola ‘grotta’. I giovani artisti del Rinascimento si calavano nelle grotte della Domus Aurea di Nerone per copiare i motivi dell’antica arte figurativa romana…”

Delvaux era colpito dalla spiegazione, “Non so come Fellini ha fatto per riprodurre gli affreschi, ma è una cosa meravigliosa, l’ha fatto in modo meraviglioso, veramente straordinario…”

Il maestro ci portò a visitare il suo museo. Si fermò a lungo davanti a “Hommage a Fellini” un quadro del 1981. Mi disse sottovoce, “Il mio grande sogno è incontrare Federico Fellini…” Gli risposi che avrei fatto il possibile per portare il suo messaggio al regista. Prese una monografia sulla

sua opera, scrisse una dedica e me la diede: “Questa è per Fellini!”

Al ritorno in Italia, dopo la sosta a Parigi per l’incontro con Andrè Masson, cercai Federico Fellini. Non pensavo di poterlo incontrare in tempi brevi, perché sapevo che stava ultimando le lavorazioni de “L’Intervista” il suo penultimo film. Parlai con Giulietta Masina. Gli spiegai che ero latore di un messaggio del maestro Paul Delvaux. Gentile e delicata mi consigliò di telefonare all’assistente del marito. L’attesa fu brevissima. Fellini mi diede un appuntamento per il giorno dopo nel suo ufficio al Teatro cinque di Cinecittà. “A Cinecittà non ci abito – diceva il regista – ma ci vivo le mie esperienze, i miei viaggi, le mie amicizie, i rapporti incominciano e finiscono nei teatri di Cinecittà”

A17 anni Fellini voleva fare lo scultore, il pittore o molti altri mestieri. Il regista non fece lo scultore o il pittore, ma il disegnatore di vignette. Sapevo che aveva una sorta di venerazione per alcuni artisti, in particolare Henri De Toulouse – Lautrec, “È un pittore caro al mio cuore. Circhi, fiere, marionette, music hall, prostitute, bordelli – tutte cose che mi piacciono – lo affascinavano.” Un mondo di visioni vicino a quello di Delvaux che da piccolo, mi aveva raccontato, era stato affascinato dal “Museo Spitzner”: “Era un museo ambulante, un baraccone da fiera, da Luna Park ma era bello… sul palcoscenico c’erano due quadri, rappresentavano una donna isterica e dall’altro lato vi era un bambino malato che era curato da Pasteur. C’era anche una specie di automa, c’era uno scheletro, e credo ci fosse un personaggio con due teste… “

Fellini amava molto anche Balthus, che avrebbe dovuto fargli un ritratto. Ma il regista lasciò cadere il progetto pur continuando a incontrare l’artista, che una volta chiese a Fellini di parlargli della sua concezione di bellezza. Il regista rimase un po’ titubante, poi si ricordò di Stendhal: “La bellezza è la promessa della felicità”. Anche Delvaux aveva avuto rapporti di amicizia e stima con Balthus: “A me Balthus piace molto. C’è qualche cosa di perverso in lui. Ed è, forse, grazie a ciò che viene fuori la sua qualità più importante.” E con un risolino: “Sì… anch’io lo sono, ma in un altro modo.”

Mentre salivo le scale dello studio 5 mi venne in mente che avevo letto che Fellini amava infinitamente anche Picasso. Mi ricordai anche di un sogno che Fellini aveva raccontato: “Un paio di volte ho sognato Picasso nei momenti di grande depressione. All’inizio di “8 e mezzo”, che non volevo più fare, ho sognato di venire ricevuto in una modestissima capanna dove abitava Picasso. Mi accoglieva e mi preparava una frittata con dodici uova… e mi disse ‘non fare macchie’, poi dividevamo la frittata che era buonissima.” Il sogno di Fellini si legava a un racconto di mio famigliare, che era stato amico di Picasso. Una sera mentre cenava in un ristorante italiano di Cannes con altri conoscenti di Picasso, l’artista gli telefonò: “Aspettatemi, vengo a mangiare qualcosa con voi” Arrivò alle 2 di notte con la moglie Jacqueline. Cosa chiese alla cucina del ristorante? “Una enorme frittata da dividere tra tutti !”

Fellini mi accolse molto amichevolmente. Fu contento di sfogliare il volume con la dedica di Delvaux e invece di sedere dietro la sua scrivania piena di carte, schizzi e matite, si sedette su una delle due sedie degli ospiti di fronte a me. Con la sua vocina garbata che contrastava con il fisico massiccio, mi investì con una serie di domande sul maestro fiammingo. Gli raccontai che era sinceramente innamorato dei suoi film e che mi aveva chiesto di organizzare un incontro con un garbo e un’intensità che mi avevano commosso. Gli raccontai dei luoghi surreali che avrebbe visto, della spiaggia atlantica popolata di strani edifici e di grandi animali di plastica. Ma a Fellini interessava più sapere cosa aveva detto Delvaux, dove lavorava e della sua famiglia. Sapeva già molto. Naturalmente sapeva che André Delvaux il regista che nel ’60 aveva girato uno splendido documentario su Fellini non era parente del maestro surrealista.

Chi è la donna che dipinge sempre nei quadri?” mi chiese Fellini. Gli risposi che non era Greta Garbo come alcuni avevano supposto, ma la moglie Marie”. Aggiunsi che Delvaux era sereno, contento dei suoi quadri, della sua vita. Fellini fece una smorfia amara. Non era più l’ottavo re di Roma degli anni d’oro Sembrava in guerra, in trincea, pronto a combattere con produttori che ritenevano i suoi film troppo costosi per gli incassi che avevano. “I cineasti sono davvero come i pittori, non hanno bisogno di pensare, e sono i più felici tra gli artisti, quelli che vivono più a lungo, i meno nevrotici. Il pittore può veramente creare senza pensare, tranne il pensare alla cosa più confortante della sua attività, al suo aspetto artigianale.” aveva scritto Fellini. Ma la differenza nel lavoro dei due maestri era semplice. Delvaux deteneva tutti i mezzi di produzione, Fellini no.

Continuò a fare domande su domande. Sembrava interessato a sapere tutto, ma era anche interessato a incontrarlo? Sapevo che aveva fama di gran bugiardo, che non smentiva mai oppure, come aveva scritto Fofi: “Non mentiva semmai si mentiva.” Forse ero stato ingiustamente prevenuto perché con me fu molto sincero. “In questo momento non posso andare ad incontrare Delvaux in Belgio perché sono impegnato con le lavorazioni finali del mio film ( “l’Intervista”), ma in futuro vorrei andare a trovarlo. Lo ammiro moltissimo. Ha il suo numero di telefono?” Gli diedi il numero che avevo. Mentre mi congedava, Fellini mi disse due o tre volte, “Le faccio i migliori auguri per la sua attività, per il suo lavoro….” Avevo un presentimento che qualcosa sarebbe successo. Seppi in seguito che i due maestri si erano sentiti e che Fellini aveva scritto a Delvaux una bella lettera preannunciando un incontro: “Mio caro maestro Delvaux, non sapevo dell’opera che lei mi aveva dedicato e la cosa mi ha fatto molto piacere. L’Editore della Differenza mi ha proposto una cosa molto simpatica. La farei molto volentieri per l’ammirazione che ho per lei. È una bella idea essere insieme in un’avventura come quella. Le faccio molti auguri per il suo lavoro e spero d’incontrarla presto in Belgio per mostrarle tutta la mia stima e amicizia…”

Impegni e malanni impedirono ai due grandi maestri di incontrarsi. Federico Fellini se ne andò a 73 anni nell’ottobre del 1993. Paul Delvaux l’anno dopo, a 94 anni, nel luglio del 1994. Lasciarono, come scrisse Breton di sé stesso in un saggio, un grande ed eterno insegnamento: “C’è quello che io vedo diversamente da come lo vedono tutti gli altri, e perfino quello che comincio a vedere e che non è visibile.”