L’ufficio di presidenza del Pd del senato non cambia di una virgola la sua posizione sui due ’destituiti’ dalla commissione affari costituzionali. I membri ’supplenti’ Chiti e Mineo restano fuori. Lo ha comunicato il presidente Luigi Zanda direttamente ai 14 ’ribelli’; ieri pomeriggio alla riunione erano in dodici in realtà, Casson aveva un impegno e Tocci è andato via quasi subito. Ma ha ribadito che l’art. 67 della Costituzione («senza vincolo di mandato») vale in aula come in commissione – del resto diversamente non avrebbe potuto fare – e i 14 alla fine si dichiarano abbastanza soddisfatti da revocare la loro ’autosospensione’ dal Pd. Il Pd non fa nessun passo indietro, visto che la richiesta di sbattere fuori i due era era arrivata direttamente dal premier Renzi, dalla Cina: per il futuro, è la promessa, casi simili non si ripeteranno.

Si chiude qui, almeno per ora, il caso dei senatori dissidenti. Con la loro promessa di dare battaglia in aula. La riunione del gruppo di palazzo Madama, convocata per stamattina, non si farà: è lo stesso Zanda a sconvocarla, per sfiammare la situazione ed evitare la replica dello scontro già andato in scena all’assemblea di sabato. Fra i quattordici restano i dubbi: «Ci è stato detto che le decisioni sulla commissione obbediscono ad altre logiche di funzionalità: a noi questo sembra francamente meno convincente», spiega Vannino Chiti. «È incoerente», per Nerina Dirindin. La «logica di funzionalità» è solo un calcolo politico, in realtà. Renzi vuole togliere a Berlusconi l’alibi dei dissensi interni al Pd per non dire una parola chiara sulle riforme. Lo farà nei prossimi giorni, forse nelle prossime ore, nell’incontro con Renzi che dovrebbe rinnovare il ’patto del Nazareno’.

I quattordici non escono, almeno per ora. «Nessuno di noi ha mai pensato di cercare casa fuori. Siamo nel Pd e le nostre battaglie le vogliamo portare avanti nel Pd», dice Chiti. «Passiamo dalla guerra di movimento alla guerra di posizione», Massimo Mucchetti, «Non siamo un’area politica. Facciamo una battaglia. E poi siamo seri: ci chiedono obbedienza su un testo che non c’è, che ha almeno tre varianti». Ancora Chiti: «Zanda ci ha dato un attestato di stima, ed è importante visto che in questi giorni ci hanno definito in ogni modo. Non siamo ’palude’, ’sabotatori’, ’ostacolo’ per la riforma». Il gruppo si vede stamattina per stendere un documento, ma la crisi rientra. «Tutto è bene quel che finisce bene», chiosa con ironia il renziano Marcucci.

Ma la chiusura della crisi interna non chiarisce la strada della riforma del senato, come volevasi dimostrare. Ieri mattina Matteo Renzi ha incontrato il presidente della Repubblica per fare un punto, ufficialmente «un ampio giro di orizzonte» sulla riforma e sul «possibile coinvolgimento del più ampio arco di forze politiche» in vista del voto del senato. Il presidente è preoccupato. La disponibilità a discutere delle riforme, per la prima volta, da parte di Lega e M5S, sarebbe un buon segnale, fosse vera. Renzi ieri ai suoi ha detto: «Prendo sul serio l’apertura di Grillo». Così vuole far pesare a Berlusconi il fatto di avere a disposizione altri ’forni’: il Carroccio, i grillini. La verità è che fra i renziani di palazzo Chigi lo scetticismo è totale, soprattutto sull’M5S che annuncia la sua disponibilità al dialogo con un comunicato che arriva direttamente dalla Casaleggi&Associati. All’incontro in diretta streaming non ci sarà Grillo quindi il premier non andrà: manderà i presidenti del Pd di camera e senato Speranza e Zanda, e il vicesegretario Guerini.

Come prima più di prima il vero partner delle riforme resta Berlusconi. Il patto deve essere rinnovato: gli sherpa stanno lavorando, in commissione e fuori. Ma la parola finale spetta solo all’ex Cavaliere. Il quale però, con buona pace di tutti quelli che se la prendono con il dissenti del Pd, domani si avvia a rilanciare l’elezione diretta del capo dello stato. Un bluff, oppure una mossa destinata a fare saltare tutto il piatto?

Nell’attesa, a Renzi non restano che gli annunci di sempre: «Questa è una settimana decisiva», dice davanti agli industriali a Gambellara, in provincia di Vicenza. Sulle riforme non molla «di mezzo centimetro. Andiamo avanti a testa alta. Abbiamo ingolfato il sistema che serve a fare le leggi, ora noi il Senato lo cambiamo, non lo facciamo solo per cambiare il procedimento legislativo. Lo facciamo perché l’Italia ce la può fare, ma dobbiamo essere operativi subito». Sempreché Berlusconi permetta.