«Ho seguito il consiglio del governo», dice Nick Cave all’inizio di This Much I Know to Be True, il film di Andrew Dominik girato nella primavera del 2021 durante le prove del tour britannico con Warren Ellis (in streaming su MUBI dall’8 luglio). Cave fa riferimento a un’infelice campagna del governo britannico dell’ottobre del 2020 in cui si invitavano i giovani ad abbandonare le aspirazioni artistiche e a scegliere piuttosto una carriera nella cyber security. Una comunicazione maldestra aspramente criticata e subito ritirata. «Dato che non è più possibile vivere come musicista, suonando, mi sono riqualificato come ceramista», dice con malcelata ironia e con grande orrore del suo manager.
La scena si sposta nel laboratorio dove Cave, in camice bianco, mostra le sue creazioni di scultore. La prima è un tentativo malriuscito di raffigurare un santo che bolle nell’olio. Lo stile è quello delle statuine Staffordshire di epoca vittoriana, realizzate da manodopera infantile, che tradizionalmente venivano esposte sulle mensole del camino ed essendo viste solo di fronte, hanno la parte posteriore piatta. Uno alla volta, Cave mostra i pezzi del suo work in progress, la storia del diavolo in diciotto «stazioni», dalla nascita alla morte: il diavolo appena nato, rannicchiato contro un puledro; il diavolo bambino che eredita il mondo; il suo primo amore; il diavolo adulto che parte per la guerra, circondato da coniglietti che una volta smaltati saranno tutti dorati; il diavolo di ritorno dalla guerra, visibilmente cambiato, le corna sono cresciute, è coperto di medaglie, reso audace e potente dall’esperienza; il diavolo prende moglie. Poi arriva la statuina che ritrae il diavolo mentre sacrifica il primo figlio. C’è un silenzio prolungato mentre l’obiettivo si sofferma sulla piccola scultura, una pausa che si riempie di inquietudine mentre nello spettatore cresce lo sgomento. All’improvviso sembra che Cave stia parlando di se stesso.

UN DESTINO AVVERSO
Lo scorso maggio, pochi giorni prima dell’uscita nelle sale di This Much I Know to Be True, è arrivata la notizia della morte di Jethro, il suo primogenito, avuto nel 1991 dalla modella australiana Beau Lazenby. Jethro aveva conosciuto suo padre solo verso i sette-otto anni, nel 1999 era stato uno dei paggetti al matrimonio di Cave e Susie Bick insieme al secondogenito Luke (i due sono nati a dieci giorni di distanza, uno in Australia, l’altro in Brasile). Le cause della morte non sono state rese note, ma il giovane trentunenne, ex modello e attore, era appena stato scarcerato su cauzione e avrebbe dovuto iniziare un percorso di disintossicazione. È stato trovato morto in un motel a pochi chilometri da Melbourne. Sette anni fa, nel luglio del 2015 Arthur, uno dei due gemelli avuti nel Duemila da Bick, era precipitato da una scogliera nei pressi di Brighton dopo aver assunto sostanze allucinogene.
Ovviamente Nick Cave non ha ucciso né Arthur né Jethro, se non fosse che tutti i genitori uccidono i propri figli per il solo fatto di metterli al mondo. Tuttavia, nel suo caso, sembra che il destino gli stia presentando adesso, che fa meditazione ed è diventato vegetariano, il conto esorbitante per un passato di sregolatezze ed eccessi.
Nelle statuine successive, tutte ancora in resina bianca, il diavolo appare separato dal mondo a causa della sua trasgressione; prova rimorso, è inginocchiato davanti a una pila di teschi, si copre il volto con le mani. Poi è invecchiato, al suo ultimo ballo, il volto scavato, le costole sporgenti come quelle di un Cristo romanico, e infine muore dissanguato, sorretto da due marinai. «Il suo sangue si raccoglierà in una pozza qui in basso – dice Cave – dove nuotano dei cigni». L’ultima statuina sarà bellissima, aggiunge: «Il diavolo, ormai ridotto pelle e ossa, viene gettato via, lasciato morire e marcire. Accanto a lui c’è un bambino inginocchiato che gli porge la mano, in segno di perdono».
È un racconto autobiografico? Nick Cave spera di essere perdonato come il diavolo? Dal 2015 a oggi la sua condizione è passata da quella di artista incensato dalla critica e adorato dai fan, con una carriera straordinaria in costante evoluzione (musicista, scrittore, saggista, sceneggiatore, compositore per il cinema e il teatro, attore), a quella di un uomo due volte colpito dal lutto peggiore che possa toccare a un essere umano. Su di lui sembra accanirsi Ate, la dea della sventura e della vendetta, che dopo averlo indotto al peccato di hýbris, quella tracotanza che Cave impersona così bene nel video di Jubilee Street (uno dei brani dell’album Push the Sky Away del 2013), lo colpisce in modo spietato per peccati che dovrebbe aver espiato.

IN TOUR
Le immagini nel laboratorio di ceramica sono solo il prologo al film che documenta le prove di Nick Cave e Warren Ellis con un coro, un batterista e un quartetto d’archi in preparazione del tour inglese dello scorso anno, alla ripresa dei concerti dopo la pausa pandemica. Le canzoni della setlist sono quelle di Ghosteen e di Carnage, gli ultimi due dischi; i brani si alternano a brevi scambi che illuminano la collaborazione trentennale fra i due. «Warren è più in modalità di trasmissione che di ricezione», dice Cave, «anche se quest’affermazione potrebbe offenderlo».
«Ho la tendenza a fissarmi sulle cose, continuo a suonare lo stesso loop per mezz’ora, convinto che sia sempre diverso», dice Ellis con una risata da satiro. Fisicamente non potrebbero essere più diversi: l’uno azzimatissimo, l’altro con i capelli e la barba fieramente incolti.
Cave spiega come Ellis si è «intrufolato» nei Bad Seeds accettando all’inizio un ruolo subordinato, per poi fare fuori uno alla volta gli altri: «Il prossimo che caccerà sono io. Ho notato che ultimamente canta sempre più spesso», dice con una risata tenebrosa.
L’obiettivo di Dominik non fa sconti: riprende da vicino i capelli corvini, immobili e acrilici di Cave, i cedimenti del profilo, le borse sotto gli occhi. Il regista non risparmia nemmeno Marianne Faithfull, che arriva sul set in sedia a rotelle, imperiosa, matronale e disfatta, ferocemente attaccata alla vita e al tubo dell’ossigeno.
Cave è serio e autorevole, nello sguardo non spento balugina a tratti lo spirito ribelle di un tempo. Lui e Susie hanno lasciato Brighton e vivono in una piccola casa rosa a Londra dove, a suo dire, sono quasi sempre felici. Ma la felicità per Cave non è più una priorità: «La cosa più importante per me adesso è avere il senso delle cose, che non dipende più dal mio lavoro, dalla mia vita creativa. Adesso per me il mondo è un luogo dotato di significato. Prima mi sarei definito un musicista o uno scrittore, adesso cerco di non pensare più a me stesso nei termini del mio lavoro, ma come persona: marito, padre, amico, cittadino che scrive e fa musica», dice.
Verso la fine del documentario, Cave risponde a un paio delle circa 40mila domande arrivate tramite i Red Hand Files, il canale diretto di comunicazione che ha aperto con i fan di tutto il mondo e di ogni età. Domande disperate lanciate nel vuoto della rete da chi non saprebbe a chi altro rivolgerle.
«È una pratica spirituale, mi costringo a riflettere senza rispondere subito, a stabilire un rapporto compassionevole che tira fuori la parte migliore di me, che non è la più immediata», dice. Nel film risponde così a Billy, che gli scrive dalla Scozia e che ha perso tutto, il lavoro, la casa, la famiglia: «Non abbiamo controllo sulla nostra vita, ma non siamo privi di potere, possiamo scegliere come reagire: se crollare, diventare più duri e amareggiati, o prendere l’altra strada, quella del cambiamento, della prossima azione migliore, come atto di insubordinazione nei confronti dei capricci della vita».
Sono parole che ogni giorno probabilmente rivolge anche a se stesso. Ma le sue domande disperate, Nick Cave a chi le pone? Di sicuro è vitale essere tornato a suonare con i Bad Seeds (il tour estivo fa tappa all’Arena di Verona il 4 luglio) e per il momento non sembra nemmeno aver perso il proverbiale senso dell’umorismo e dell’autoironia. Durante il concerto al Primavera Sound di Barcellona, lo scorso 4 giugno, ha dedicato una canzone ai figli Luke ed Earl: «Dovrebbero essere qui da qualche parte, se non sono andati a sentire i Bauhaus».