È una nenia che il Pd ripete, con tutti i suoi esponenti, da giorni: «Spetta a Conte: lui è il premier, lui deve trovare la mediazione». Si allude al fronte più incandescente, quello della prescrizione, ma non solo a quello. «Spetta a Conte» anche quadrare il cerchio sulle concessioni autostradali e soprattutto far partire subito la Fase 2, avviare quella verifica di cui si parla da dicembre ma che somiglia ogni settimana di più all’araba fenice. Tocca a Conte perché, fanno capire più chiaramente di come non si può dagli spalti del Pd, se il presidente del consiglio non riesce a comporre un dissidio tra due forze della sua maggioranza, cosa ci sta a fare?

Dire che il Pd è insoddisfatto della piega che hanno preso le cose a partire dal disastro prescrizione significa esercitarsi in understatement. Sarebbe più esatto parlare di un partito furibondo e lo si può capire. Costretto a rincorrere un Matteo Renzi che ha scelto il momento migliore per il suo affondo, nella certezza che comunque vadano a finire le cose non si voterà: «Sta in un ventre di vacca», chiosano dal Nazareno. Impossibile a questo punto, per il Pd, non schierarsi con Iv sulla prescrizione. Non con sponde anche istituzionali come quelle di cui dispone il partito trasversale del no alla riforma Bonafede. Ma la vittoria di quel fronte verrebbe accreditata tutta al ragazzo di Rignano e, in compenso, l’ira frustrata del ministro della giustizia Alfonso Bonafede e dei 5 Stelle si riverserebbe proprio sul Pd destabilizzando una volta per tutte il già malfermo governo. La sola via d’uscita è il miracolo che tutti, sia il Pd che i 5S, si aspettano da Conte.

Quel miracolo, per come si sono messe le cose, passa per una resa almeno parziale di Bonafede. Le formule possono essere diverse ma al Pd basterebbe il semaforo verde del ministro a un rinvio anche dimezzato rispetto all’anno proposto da Italia viva con il lodo Annibali. Sei mesi di congelamento per avere tempo di mettere mano al processo penale: il punto di caduta che ieri nei corridoi di palazzo veniva dato per quasi certo ma che il guardasigilli smentisce invece vigorosamente. Per i «governisti» del M5S, come Federico D’Incà, Stefano Patuanelli e probabilmente lo stesso reggente Vito Crimi, quella strada sarebbe percorribile. Per i duri come Barbara Lezzi e lo stesso Bonafede, con Luigi Di Maio alle spalle, non lo è.

Il premier ha venti giorni per evitare una spaccatura clamorosa in aula, della quale il primo a fare le spese sarebbe proprio lui. Stavolta tutti danno per certo che neppure una replica quasi identica del caso Tav, la vicenda che portò alla tomba la maggioranza gialloverde, implicherebbe la crisi di governo, o che comporterebbe la fine della legislatura. Il presidente del consiglio ne uscirebbe però più che ridimensionato: un’anatra zoppa penalizzata dalla conclamata incapacità di tenere a bada la sua maggioranza e di indirizzare il partito che lo ha indicato due volte come premier. Per Matteo Renzi, che non ha mai messo da parte l’obiettivo di accompagnare al portone di palazzo Chigi «Giuseppi», raggiungere quella meta sarebbe solo questione di tempo. Il governo in fase di ripartenza si ritroverebbe in panne ancora prima di aver inserito la chiave d’accensione.

Neppure in quel caso, però, si arriverebbe al voto ed è su questa convinzione, quasi certamente fondata, che si basa l’ennesimo azzardo dell’ex premier. Nonostante le voci che si rincorrono ormai da mesi, il pattuglione azzurro che fa capo a Mara Carfagna non interverrà in difesa del governo giallorosa. Ma se il governo fosse un altro, e la maggioranza di conseguenza pure, le cose cambierebbero e il supporto di quei deputati e senatori arriverebbe di certo. Quanto all’ala governista dei 5S, che è probabilmente minoritaria tra i militanti ma regna incontrastata nei gruppi parlamentari, difficilmente sceglierebbe di seguire gli «autonomisti» in elezioni suicide piuttosto che accettare la defenestrazione di Conte. A ogni buon conto, non è certo un caso se negli ultimi giorni si sono moltiplicate le voci di possibili accordi tra Renzi e il centrodestra, senza però FdI, in caso di crisi.

In caso di rottura in aula il barometro di Nicola Zingaretti segna comunque tempesta. Andrebbe dunque evitata a ogni costo. Ma come riuscirci non lo sa nessuno. «Spetta a Conte».