Gli Stati generali dell’Economia annunciati in pompa magna dal presidente del Consiglio si terranno, anche se non lunedì come negli auspici di Giuseppe Conte e probabilmente neppure nel corso della prossima settimana. Senza fretta, insomma, e senza troppa enfasi, derubricati ad «avvio di un percorso». Perché il processo deve coinvolgere tutti gli attori sociali come chiesto da Conte, certo, però «realmente e non in maniera superficiale», come fanno sapere dal Pd dopo il vertice in teleconferenza seguito alla rissa tra Conte e il capodelegazione dem Dario Franceschini di venerdì pomeriggio. Come dire che invece il progetto del premier era appunto «superficiale» e, stando ai commenti filtrati dopo il summit, non era «serio e concreto».

«IL PD HA BOCCIATO Conte nel merito e nel metodo», commenta senza perdersi in perifrasi la capogruppo azzurra al Senato Annamaria Bernini. E se questo è il Pd ci si può facilmente immaginare gli altri soci della maggioranza, Movimento 5 Stelle e LeU, che nei confronti di un percorso sul quale grava l’ipoteca di una volontà di dialogo non solo con «tutte le forze sociali» ma anche con Forza Italia sono sempre stati più che scettici. In realtà, però, la situazione è più complessa e molto meno nitida, come sempre quando si parla di una maggioranza formalmente composta da quattro soggetti ma in realtà vicina alla decina tenendo conto delle divisioni interne al Pd, ai 5S e a LeU.

DI CERTO IL PREMIER si è mosso in maniera goffa. L’idea di convocare gli Stati generali dell’Economia senza consultare né preavvertire il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che si è attaccato al telefono imbufalito, e senza farne parola con i partiti della maggioranza, facendoli comprensibilmente imbestialire, non la si può definire brillante neppure con il massimo della buona volontà. È altrettanto vero che la proposta era vaghissima per lo stesso proponente. Nessuna lista di invitati, nessun programma di governo dal quale prendere le mosse, per Andrea Orlando, vicesegretario del Pd, imprescindibile punto di partenza ma al momento inesistente, fatte salve le conclusioni della task force di Vittorio Colao ridotte però a una autorevole opinione tra tante e nulla di più.

DA QUESTO PUNTO di vista l’idea del presidente del consiglio è stata davvero, se non affossata del tutto, trasformata e ridimensionata. Ma il gioco politico sullo sfondo resta in piedi. L’insurrezione del Pd bersagliava Conte ma anche Nicola Zingaretti, che a botta calda non era stato affatto negativo sugli Stati generali. Ma sulla vera manovra che il segretario redivivo sta tentando dopo settimane, se non mesi, di totale afasia non c’è, nonostante i malumori di Franceschini, semaforo rosso. Si tratta di una marcia di avvicinamento con il partito azzurro che mira non certo a un al momento impossibile allargamento della maggioranza o addirittura a un governo di unità nazionale ma, più semplicemente, alla ricerca di un puntello sulle misure di politica economica ostacolate dall’ala radicale dei 5S, senza il quale il cambio di marcia invocato da Goffredo Bettini sarà impossibile. Allo stesso tempo il segretario del Pd mira a sterilizzare Matteo Renzi, in parte scippandogli anche grazie al rapporto con Forza Italia il ruolo di interlocutore privilegiato degli imprenditori, in parte chiudendo l’accordo sulla legge elettorale proporzionale almeno con una parte dell’opposizione. Non caso il reciproco scambio di segnali innervosisce parecchio, per motivi opposti a quelli dei grillini e di LeU, l’ex premier di Rignano.

IN PARTE SI TRATTA davvero di «giochi politici del mondo di ieri», come sbotta la capogruppo di LeU al Senato Loredana De Petris. Ma in questo caso il minuetto politicante ha in ballo una posta in gioco del tutto concreta: il monte di miliardi che arriverà, più poi che prima ma certamente, dalla Ue. La definizione, se non delle misure specifiche, dell’indirizzo di fondo: l’orizzonte strategico. È una partita enorme, dalla quale dipende non solo l’esito della crisi ma la fisionomia futura dell’Italia, che si giocherà dopo la pausa estiva. Ma con un prologo immediato: la decisione sul Mes che continua a profilarsi difficile perché per l’Unione europea stessa l’accesso dell’Italia al prestito è elemento, se non proprio determinante, almeno molto importante. Ma su quel fronte una parte rilevante del M5S resta irremovibile.