Una telefonata nel primo pomeriggio di ieri tra Nicola Zingaretti e Matteo Renzi aveva fatto sperare il segretario del Pd di aver convinto il rottamatore a pigiare sul freno. Nelle ultime 24 ore Zingaretti aveva fatto di tutto, d’intesa col Quirinale, per spingere Conte a rimangiarsi gli ultimatum di martedì a Italia Viva, per spingerlo a ribadire la necessità di un nuovo «patto di legislatura» dentro la maggioranza giallorossa. «Adesso Italia Viva raccolga questo invito. Fermiamo le polemiche, mettiamoci al lavoro», gli aveva fatto eco Andrea Orlando.

Una ridda di dichiarazioni che dimostrano come i dem avessero abboccato all’amo del loro ex segretario. Renzi invece ha bluffato un’altra volta. E alle 18, quando il senatore di Rignano pronuncia la parola «dimissioni», al Nazareno è una coltellata in piena schiena. Solo Franceschini, che lo conosce meglio di tutti, aveva continuato a tempestarlo di telefonate e messaggi fino all’ultimo secondo, sospettoso che Matteo alla fine sfasciasse tutto.

Una coltellata che ferisce il Pd, la rabbia schiuma, così come l’incertezza sul da farsi, consapevoli che adesso tutto si complica, che «rimettere insieme i cocci sarà quasi impossibile», come aveva detto Zingaretti martedì, quando Conte e Renzi si stavano menando fendenti.

Il segretario per una volta accantona i toni felpati e mena duro: «Quello di Italia Viva è un errore gravissimo contro l’Italia. Oggi altri 500 morti e si apre una crisi di governo? Io francamente non lo capisco», rivela sconfortato. «Conte aveva assicurato la disponibiltà per un patto legislatura e questo rende la scelta di Italia viva ancora più incomprensibile. Ora è a rischio tutto, non solo il Recovery».

«Un errore fatto da pochi che pagheremo tutti», sentenzia Orlando. «Da domani vedremo che fare», dice Zingaretti al Tg1, certificando così che non c’è un Piano B, che i dem avevano investito tutte le loro fiches in un lunghissimo e faticoso tentativo di mediazione per arrivare a un rimpasto o a un Conte ter, ma senza toccare né la maggioranza né tantomeno il premier, considerato forse a ragione «il punto di equilibrio imprescindibile» tra Pd e cinque stelle.

Questa mattina ci sarà la riunione dell’ufficio politico, con i ministri e i capigruppo. Poi riprenderà la riunione della direzione, che si era interrotta l’8 gennaio, e in quella sede Zingaretti aveva denunciato il rischio di una «evoluzione incontrollabile della crisi», di alimentare «la disperazione e la rabbia delle persone» di fronte a «giochi di palazzo incomprensibili». E la prospettiva concreta di rotolare verso le urne in piena pandemia.

Ora i dem cercheranno ancora una volta, con la forza della disperazione, di riallacciare un improbabile dialogo tra Renzi e Conte per un nuovo governo giallorosso. «Non siamo disponibili ad andare oltre il perimetro di questa coalizione, e gli italiani non capirebbero perché dovremmo abbandonare Conte, sarebbe un salto nel vuoto», dice Orlando. «Assumeremo le prossime iniziative in rapporto con Conte e gli alleati».

L’obiettivo è stoppare la tentazione del premier di andare in aula a cercarsi i responsabili, «non si va avanti con qualche transfuga». Così come i dem non vogliono essere risucchiati da Renzi in un governo istituzionale con Berlusconi e Salvini, ipotesi che continuano a negare proprio perché sanno che è insidiosa: «Escludo totalmente il nostro appoggio a un governo con la destra antieuropea», insiste Orlando.

Sullo sfondo le urne, la tentazione di Zingaretti dal 2019. Tra i suoi fedelissimi molti spingono in questa direzione, lui però ne vede anche tutti i rischi.