Dispiegando un enciclopedico apparato di conoscenze storiche e militari, e una polifonia di linguaggi tecnici e gergali straordinariamente ricca e suggestiva, lo scrittore più popolare della diaspora indiana porta a termine l’ambizioso progetto di raccontare l’impero britannico all’apice della sua potenza, ripercorrendo l’intera filiera del commercio dell’oppio – dal produttore al consumatore – fino all’esplosione del conflitto tra Inghilterra e Cina che portò alla resa dei cinesi e alla sigla del farsesco accordo di Nanchino il 29 agosto del 1842. A sette anni dalla pubblicazione di Mare di Papaveri e a quattro anni da quella del Fiume dell’oppio, a chiudere il cerchio delle peregrinazioni della nave negriera Ibis lungo le rotte commerciali dell’impero britannico in Asia esce ora in Italia, di Amitav Ghosh, Diluvio di fuoco nell’incisiva traduzione di Anna Nadotti e Norman Gobetti (Neri Pozza, pp. 703, euro 18,50).

I primi due romanzi della trilogia immergevano i lettori nelle esalazioni delle melmose fabbriche d’oppio delle pianure indostaniche, per trasportarli, quindi, da Bombay a Macao a bordo delle modernissime navi destinate al contrabbando della mercanzia più nociva e redditizia del diciannovesimo secolo. Diluvio di fuoco conclude l’imponente ricostruzione della prima Guerra dell’Oppio, gettando i lettori nella mischia dei violenti combattimenti nei quali, nell’estate del 1841, si fronteggiarono l’abborracciato esercito del Celeste Impero e le supertecnologiche truppe indiane al soldo della famigerata East India Company.

Una guerra generata dalla perversa combinazione di spietato cinismo unito a un’idea messianica del colonialismo europeo e glorificata, dagli inglesi, così come da tutti i sostenitori della superiorità occidentale, come il «trionfo della civiltà moderna, un esempio perfetto di come la disciplina e la ragione potevano conquistare continenti di tenebra». Benché l’attacco all’imperialismo condotto in Diluvio di fuoco sia ancora più esplicito e serrato rispetto a quello espresso nei romanzi precedenti, lo sguardo sulla storia non è, tuttavia, moralistico né meramente intimistico.

Ghosh racconta le drammatiche vicende di personaggi vecchi e nuovi con il tocco leggero dell’autore di feuilleton e, insieme, con la libertà intellettuale del romanziere che non ha più bisogno di esorcizzare la memoria coloniale derealizzandola attraverso il pastiche, lo straniamento parodico o il realismo magico – alla maniera di Salman Rushdie e, ancora prima, di Forster e Conrad – e di quella memoria si riappropria senza complessi, poiché la percepisce come parte integrante della genealogia cruenta, diasporica e plurale del mondo in cui vive.

Ecco perché, dopo aver affrontato le migrazioni dei contadini affamati dalla coltura del papavero imposta dagli inglesi, e le scelleratezze dei contrabbandieri di Fanqui Town (il distretto di Canton riservato agli stranieri), Ghosh vuole arrivare fino ai gangli dell’economia imperiale e declinare la mitologia provvidenzialistica associata all’espansione del capitalismo attraverso trame sempre più intriganti e inconsuete. È così che, in Diluvio di fuoco, ritroviamo Zachary Reid, il marinaio mulatto di Baltimora che era rimasto coinvolto nella morte del capitano della Ibis in Mare di papaveri, trasformato in rampante imprenditore dalla passione per la moglie dell’industriale inglese che è tra i maggiori sostenitori della guerra, e redento da «Onania, o l’abietto peccato della profanazione di sé» grazie a massicce dosi di amplessi adulterini. E torniamo a inseguire le peripezie di Neel Halder, il dotto raja imprigionato per debiti, riapparso nei panni del segretario di Bahram Modi (il mercante parsi rivale degli inglesi, protagonista del Fiume dell’oppio), ora passato alle file nemiche al servizio dell’illuminato commissario Lin.

Inoltre, assistiamo alla metamorfosi di Shireen Modi da zelante adepta della purdah a impavida viaggiatrice, determinata a far valere i diritti di risarcimento del marito (cui i cinesi hanno sequestrato ingenti carichi di droga), ucciso da una vita di compromessi con gli invasori britannici e con la propria coscienza. Ma, soprattutto, rientriamo nel cuore della sventurata famiglia Singh attraverso il personaggio di Kesri, il nobile ufficiale della East India Company, fratello di Deeti (la protagonista di Mare di papaveri), espulso dagli alti ranghi militari a causa del disonore caduto sulla sorella per essersi sottratta alla sati e essere fuggita con un carrettiere di infima casta, e spedito a massacrare cinesi sfibrati dall’oppio che fanno sentire i «soldati di mestiere» niente più che «assassini prezzolati».
A Ghosh la macrostoria interessa anzitutto come palcoscenico di microstorie: è l’interesse per le condizioni di vita delle persone a metterne in moto l’immaginazione. La trilogia della Ibis rappresenta il progetto più coraggioso fra quelli scaturiti dalla sua invincibile «attrazione per la gente che vive ai margini, in India e nel mondo, per le figure oscure e sconfitte, per le persone che riescono a preservare una qualche forma di vita dalla devastazione», come ha detto in una intervista recente. E se la storia è anzitutto intreccio di vite e di contingenze, il lavoro del romanziere diventa, per usare le parole di Ralph Ellison, un sistematico «esperimento di umanità comparata», sostenuto da un’idea di letteratura-mondo capace – ha detto lo stesso Ghosh – di «dare corpo a differenze tra luoghi e culture, emozioni e aspirazioni, in modo da rendere tali differenze comunicabili».

Non si apprezza a pieno l’orizzonte di senso disegnato da questa trilogia, se non se ne coglie il nucleo di profonda e tempestiva attualità. Un’attualità che si manifesta nel superamento della vocazione alterizzante e reattiva, espressa da tanta letteratura postcoloniale, a favore di una politica del romanzo diretta a esplorare quelle zone di contatto, di continuità e di complicità tra le società asiatiche e le società europee ottocentesche dalle quali, nel bene e nel male, discende la fisionomia globale del nostro mondo. Nelle mani di Ghosh l’impero britannico si staglia al cospetto del lettore come un grandioso dispositivo disciplinante – e modernizzante – che è innegabilmente apparentato con il Grande Gioco di kiplinghiana memoria, ma che da esso si discosta nel rifiuto incondizionato di reificarne le vittime.

Da questo rifiuto deriva l’importanza di concludere l’epica ricostruzione ‘dal basso’ del raj, raccontando la Guerra dell’Oppio senza falsi pudori e in tutta la sua feroce e spettacolare materialità, da un lato come una perversione del capitalismo occidentale e, dall’altro come un potentissimo catalizzatore di energie creative, capace di amalgamare persone di origini e condizioni radicalmente diverse in nome di un comune diritto al progresso economico e alla libertà di pensiero, santificato congiuntamente dal Dio dei cristiani, dalla regina Vittoria e dalle innumerevoli divinità del pantheon indù.

Nel 2001 Amitav Ghosh ha rifiutato il Commonwealth Prize, in polemica con le politiche neocolonialiste del governo britannico e con la «tendenza costante», all’interno del mondo anglofono, «a ripulire il passato, innanzitutto nella lingua». Parallelamente, ha sostenuto l’importanza della lingua e della cultura inglesi nella formazione della trama profonda, sintattica, del bengalese moderno (sua lingua materna) e della società indiana nel suo complesso. Raccontare la storia dell’altro impero, come ha fatto nella Ibis Trilogy con gli strumenti espressivi propri del grande artista, non è un’operazione revanchista né un progetto commemorativo, bensì una tappa ineludibile del percorso verso una giustizia poetica guadagnata alla illuministica unilateralità della coscienza occidentale.