«Fuggire dall’Asinara è sempre stato un tentativo. Un sottile gioco crudele, una prova di forza tra l’uomo che tenta la fuga e l’isola». Così scrivono, al capitolo nove di Supercarcere Asinara, Giampaolo Cassitta e Lorenzo Spanu. Capitolo nove, le evasioni. Una sola, nella storia dell’isola-carcere, andò a buon fine. Protagonisti, il primo settembre 1986, Matteo Boe e Salvatore Duras. Dal 1885, anno in cui la Legge numero 3. 183 del 28 giugno, firmata da re Umberto I e dal ministro Depretis, autorizzava l’esproprio dell’Asinara e la sua trasformazione in colonia agricola penale e lazzaretto, mai un detenuto era riuscito a raggiungere le coste della Sardegna. Duras venne riacciuffato nei pressi di Cagliari. Festeggiava l’arrivo del 1987 con sventagliate di mitra in aria. Boe, durante la latitanza, partecipò al sequestro del piccolo Farouk Kassam, nel 1992. Lo catturarono a Sartene, Corsica.

Altri, in precedenza, avevano tentato, senza successo, la fuga: Pierdesi, limando per settimane le sbarre della sua cella; gli occupanti della cella 15, diramazione Trabiccato, praticando un buco nel tetto; il croato Dikson segando le inferriate del bagno dopo aver sistemato un fantoccio nel letto; il legionario Pavlov arrampicandosi lungo una grondaia. Pochi uomini, se paragonati alle migliaia che, fino al 1998, anno di dismissione del carcere e della riconversione dell’isola in Parco Nazionale, invece approdarono qui: reclusi per crimini comuni o efferati, per mafia, per ideologie che comportavano la morte di chi le combatteva. Sbarcavano su un’isola dove avrebbero trascorso il tempo in una cella, oppure lavorando nelle attività agricole.

Per il direttore, il Maresciallo Capo, la polizia penitenziaria, per i detenuti stessi, erano i «nuovi giunti», destinati a una delle undici diramazioni dopo un colloquio con il comandante militare, la visita medica, l’incontro con il criminologo, l’educatore, l’assistente sociale, a Cala d’Oliva. Gli anni di piombo e del 41bis differenziarono in seguito una procedura uguale per tutti i nuovi giunti. Unica memoria tangibile di coloro che, dall’Asinara, furono deportati quando ne avvenne la trasformazione, sono le case di Cala d’Oliva, costruite da un nucleo di emigrati di Camogli, Liguria. Il trasferimento di 57 famiglie sarde (250 persone) e di altre 45 sarde e liguri (200 persone), venne eseguito con le maniere forti dalla polizia. Gli esiliati trovarono una seconda patria a Porto Torres, Sassari; alcuni fondarono il borgo di Stintino.

La storia dell’Asinara dei perduti e dei dimenticati inizia tra dicembre 1915 e luglio 1916. Da una ventina di piroscafi sbarcano ventiquattromila soldati austro-ungarici. Arrivano dall’Albania, sono un “regalo” all’Italia dell’alleato serbo durante la Grande Guerra: reduci vestiti di stracci militari e ammalati di colera, ammassati nel nucleo centrale di disinfezione di Cala Reale e poi negli edifici dei “periodi” per consumare le fasi della quarantena. Quelli che in seguito sarebbero diventati luoghi di detenzione, Campu Perdu, Stretti, Fornelli, servono da campi di prigionia. Il conto finale delle vittime ammonterà a 5700. Ben più pesante sarebbe stato, se il generale Pietro Ferrari non si fosse impegnato in una missione umanitaria ante litteram. Restano, a ricordare quei fatti, una piccola cappella a Cala Reale, opera dei prigionieri; i ruderi dei campi di Stretti e Tamburino, la stele di Stretti in omaggio a Ferrari e l’Ossario del 1936 dedicato ai caduti. Un’altra deportazione, seguita alla campagna coloniale italiana, vede, dal 1937 al 1939, centinaia di etiopi confinati sull’isola per «osservazione e bonifica sanitaria». Tra di loro, anche la figlia del Negus Ailè Selassiè, che qui perderà il figlio.

Fornelli, Santa Maria, Tumbarino, Stretti, Campu Perdu, Campu Faro, Trabuccato, Case Bianche, Elighe Mannu, Sa Zonca sono le diramazioni che hanno fatto dell’Asinara un luogo detentivo “diffuso”. Appartenere all’una o all’altra significava essere un buono o un cattivo. Trabuccato ospitava gli “sconsegnati”, che godevano di una sorta di semilibertà e coltivavano le vigne, accanto a condannati a pene più pesanti. Cala d’Oliva era il regno dei reclusi di fiducia, impiegati nelle cucine e nella foresteria. A Tumbarino erano rinchiusi i colpevoli di violenza carnale e pedofilia. Gli sconsegnati di Case Bianche, Elighe Mannu, Sa Zonca non erano sottoposti a vigilanza continua, anzi venivano date loro provviste settimanali, il “vitto freddo in natura”, poiché avevano il compito di governare il bestiame e quindi non potevano sottostare agli orari della mensa. La diramazione di Stretti durò solo quarant’anni, dal 1918 al 1958. Il vento era nemico troppo forte per le coltivazioni.

La diramazione di Fornelli impone un discorso a parte. Dai suoi spazi inizia la visita dell’isola, a bordo del Trenino Verde su pneumatici, che in cinque ore di viaggio passa accanto a fondali da Caraibi, alla macchia mediterranea generosa nei profumi e nelle piante, a sentieri solitari, a scorci in grado di farti ammutolire, in mezzo a una luce che cambia come la forza del mare “dentro” e del mare “fuori”. Ma l’Asinara, mentre la scopri, compone una rima dove bellezza e tristezza si baciano. Una tristezza assottigliata dal tempo, eppure viva e presente come la rovine che ne sono l’anima. Filo spinato in cima a mura alte, scritte slavate, macchine agricole arrugginite, edifici lasciati a corrodersi, continuano a scrivere la cronaca dei tempi di Asinara isola prigione. Carcere di massima sicurezza dalla seconda metà degli anni ’70 per alcuni esponenti di spicco delle Brigate Rosse (Renato Curcio, Alberto Franceschini, Maurizio Ferrari, tra gli altri); dell’eversione nera, Giuliano Narìa in testa, e dell’Anonima Sarda, Fornelli venne chiusa dopo il 1980 e riaperta nel 1992. Fu lì che scoppiò la rivolta battezzata “delle caffettiere”. Il 2 ottobre del 1977, un gruppo di detenuti politici si ribellò, utilizzando anche il lancio di macchinette per il caffè imbottite di esplosivo. La rivolta si concluse il giorno dopo, e avviò una serie di misure preventive che aumentarono la sicurezza e, al medesimo tempo, isolarono e misero sotto controllo 24 ore su 24 i vigilati speciali: cancelli nei corridoi separavano un numero ristretto di celle del braccio, ogni cancello era presidiato da un agente, nei i punti nevralgici erano piazzati telecamere e sistemi di allarme. Una prigione non smette mai di essere tale. Non basta che sia vuota, abbandonata, sgretolata. Dentro il recinto murato di Fornelli vedi i piccoli bunker adibiti a parlatorio con i vetri blindati, la cabina del telefono con i fili divelti; le celle con il doppio spioncino, gli armadietti fissati ai muri, il bagno microscopico, le finestre a bocca di lupo; i cortili dell’ora d’aria sormontati da una copertura che ben spiega cosa voglia dire vedere il sole a scacchi, l’infinito susseguirsi di sbarre e contro sbarre.

Un asino bianco e autoctono cerca riparo dal sole accanto a un asino grigio e sardo, tra i resti della diramazione di Santa Maria. La chiamavano “Legione straniera”, per via della sua popolazione di spacciatori dal Nord Africa e dalle Americhe. I romani battezzarono l’isola Sinuaria, perché ricca di insenature. Il nome venne via via alterato fino a diventare Asinara. Oggi il raglio degli asini è l’unica voce rimasta. Le voci dei prigionieri sono mute da anni. Ma gli asini continuano a sentirle risuonare ogni giorno nelle loro lunghe orecchie.