Abuna Jalal Yako sta in piedi dietro l’altare che ha ricavato da un tronco d’albero. La chiesa è una delle prime strutture costruite nel campo profughi di Ashti, a Erbil, tirata su dal sacerdote iracheno. Accoglie 6mila cristiani iracheni e alcune famiglie yazidi, fuggiti da Qaraqosh e da Sinjar dopo l’offensiva dello Stato Islamico.

Camminiamo per il campo: sulle porte dei container le famiglie hanno appeso i simboli della loro identità, croci e immagini della Vergine Maria. «Nella piana di Ninewe i cristiani vivono da mille anni, sono i discendenti della popolazione assira, presente in Mesopotamia da quattro millenni – spiega al manifesto Raid Michael, cristiano di Qaraqosh – Sono 230 i villaggi cristiani nella zona. Nei secoli i cristiani si sono occupati di tradurre in arabo i libri in greco e aramaico».

Ora quell’identità è in serio pericolo, costretti alla fuga dalle barbarie del sedicente califfato. Sono assiri, caldei, siriaci, comunità radicatesi tra il Tigri e l’Eufrate nel primo secolo d.C. Il loro numero ha cominciato a ridursi dopo la caduta dell’impero ottomano, ma la fuga di massa risale al 2003: l’invasione statunitense che ha portato alla caduta del regime di Saddam Hussein ha provocato un crollo della presenza cristiana in Iraq. Da 1,5 milioni nel 2003 a 500mila nel 2014. L’avvento dell’Isis è il colpo di grazia: sarebbero almeno 150mila i cristiani fuggiti dopo la presa di Mosul.

Simile il panorama siriano: 1,8 milioni di cristiani prima della guerra civile (il 10% della popolazione), meno di 600mila oggi. «Dal primo giorno di occupazione di Mosul i cristiani sono fuggiti in massa, 100mila in un giorno solo – continua Raid – Lo stesso è successo a Qaraqosh: quando la prima bomba è caduta sulla città, i peshmerga che la proteggevano ci hanno detto di andarcene. Siamo scappati verso Erbil. Poi, il dramma: nel quartiere cristiano Ankawa a Erbil gli sfollati cristiani erano ovunque: nei giardini, nei palazzi in costruzione, per le strade. Decine di migliaia di persone. È intervenuta la Chiesa: hanno aperto il campo di Ashti e ora vivono lì».

Sono pochissimi quelli ancora nelle zone di appartenza. Come Mosul: le poche famiglie cristiane rimaste vivono nel terrore, costrette a pagare una tassa di protezione all’Isis. Una scelta forzata, tra opzioni terribili: la conversione, la morte o il pagamento della tassa religiosa. Per la prima volta nella storia dell’Iraq, Mosul non ha quasi più cristiani. Lo stesso nella piana di Ninewe, dove chi è rimasto ha imbracciato le armi: negli ultimi mesi è nata un’unità di 2mila miliziani cristiani a difesa dei villaggi ancora non violati dall’Isis e per riprendersi quelli occupati. È la Nppu, la Ninewe Plain Protection Unit.

Dall’altra parte del confine, in Siria, la situazione non è migliore. Dopo le prime offensive dell’Isis, un terzo della comunità cristiana è sparita, scappata all’estero. Gli altri hanno cercato protezione nelle aree lungo la costa e al centro, dove è ancora forte la presenza del governo. Perché quei presidenti contro i quali l’Occidente ha dichiarato guerra hanno garantito per decenni l’esistenza dell’identità cristiana nei propri territori.

L’Iraq di Saddam e la Siria della famiglia Assad, pur portando avanti programmi di arabizzazione delle minoranze, pur mettendo a tacere le voci critiche, avevano una strategia comune: tenere insieme le tante anime etniche e religiose per realizzare il progetto nazionale tipico del partito Baath. Il timore dei due governi era una divisione interna che mettesse in pericolo la tenuta dello Stato. Esattamente quello a cui si assiste oggi. I cristiani nel campo di Ashti lo dicono in coro: «L’Iraq non esiste più. Siamo cristiani, sunniti, sciiti, kurdi. Non vogliamo più vivere insieme, abbiamo paura».

Così rischia di finire la millenaria storia dei cristiani in Medio Oriente, minacciata da poteri esterni che hanno demolito gli equilibri degli ultimi 50 anni. Non c’è paese oggi in cui il numero di cristiani non sia in declino. Fa eccezione l’Iran, dove negli ultimi 20 anni il loro numero è passato da 78mila agli attuali 300mila.

Opposte le condizioni a Riyadh, che gode del sostegno indefesso dell’Occidente: in Arabia saudita, dove vivono 1,5 milioni di cristiani, per lo più migranti dal sud est asiatico, è illegale dichiararsi cristiani in pubblico e professare la propria religione. Le chiese non esistono, vietato possedere simboli del cristianesimo, bibbie, croci. A soffocarli è la Mutaween, la polizia religiosa.