Con l’oggettiva distanza storica, il beat italiano, nella seconda metà degli anni Sessanta, resta un fenomeno musicale emulativo, sull’onda degli entusiasmi suscitati, nel nostro Paese, dalla cosiddetta British Invasion. I giovani «capelloni» che abbracciano bassi, batterie, pianole e chitarre elettriche sono attratti dalle rock band meno aggressive e più vicine a una cantabilità melodica: dunque più Beatles, Hollies, Kinks, Herman Hermits che Animals, Yardbirds,The Who o Rolling Stones, men che meno le garage band americane che, attorno al 1965, iniziano a staccarsi dai terzinati ballabili e dai coretti educati del Regno Unito per creare lo psych rock o anticipare il punk di un decennio.
Ma esiste, a Parma, una sola autentica eccezione, I Corvi, quartetto che oggi viene da molti definito la prima indie band nella storia patria e che resta un unicum nel praticare il filone rock «sporco e cattivo» e all’ormai fiorita (e fiorente) psichedelia angloamericana. I Corvi sono un gruppo tuttora attivissimo grazie al loro ultimo superstite, il batterista Claudio Benassi (80 anni il prossimo 9 ottobre), mentre gli altri componenti originali Italo «Gimmi» Ferrari (basso), Fabrizio «Billo» Levati (chitarra) e Angelo Ravasini (voce e chitarra) muoiono rispettivamente nel 2000, 2006 e 2013.

TRE PERIODI
Si può osservare la vicenda umano-artistica dei Corvi storicamente ripartita in tre periodi: il primo, tra il costituirsi in quartetto (1965) e il passare dall’etichetta Ariston alla Bluebell (1968) segna il momento di notorietà, vigore, inventiva, compattezza; il secondo, fino al repentino scioglimento (durato dal 1972 al 1982), riguarda le difficoltà di un ensemble ruvido e trasgressivo ad adattarsi alle successive istanze giovanili, ormai artisticamente legate ai raffinati estetismi del prog rock; il terzo, dagli anni Ottanta a oggi, concerne il ritorno in pista, senza nostalgie revivaliste, ma con l’idea di portare sulle scene la linea maestra del rock alternativo con nuovi pezzi, iniziando (e terminando) con almeno due cover: da un lato Un ragazzo di strada, adattamento dei misconosciuti Brogues (futuri Quicksilver, assieme a Jefferson Airplane e Grateful Dead); dall’altro Sospesa a un filo, ossia I Had Too Much to Dream Last Night dei quasi famosi Electric Prunes, che a loro volta si rendono protagonisti dell’unica vera messa rock incisa su disco Mass in F minor (1968), tentativo già anticipato da I Corvi nel marzo 1967 con un analogo evento a Santa Maria della Pace, che, nonostante la chiesa affollatissima, costa l’allontanamento del cappellano don Pino Setti, accusato di blasfemia dall’arcivescovado.
A raccontare tutto questo in dettaglio, c’è ora il libro autobiografico Ragazzi di strada… i Corvi (Media Print) di Claudio Benassi, il quale, intervistato al riguardo, non perde l’ottimismo e l’entusiasmo dei «formidabili» Sixties. La prima domanda non può che riguardare la consapevolezza all’epoca di essere una rock band alternativa: «Direi proprio di sì, venivamo dalla strada e già questo ci portava a essere trasgressivi. Non accettavamo di essere pilotati da altri, le nostre scelte erano molto precise nella musica, nell’abbigliamento e nel comportamento: anticonformisti, indipendenti, ribelli e anarchici. La nostra musica era scarna, secca, tagliente e graffiante, con atmosfere e suoni più duri rispetto agli altri. Noi non mettevamo niente che potesse abbellire o addolcire i pezzi, solo l’essenziale espresso con energia. L’esempio è Bang Bang: a differenza delle altre versioni, come quelle degli Equipe 84, di Dalida o Milena Cantù, la nostra interpretazione è diversa, notevolmente indurita e scarna, il che colloca il brano in una dimensione per certi versi anticipatrice di un certo suono ‘hard’».

UNO STILE ESSENZIALE
All’epoca si fanno cover in italiano e in tal senso I Corvi vanno in controtendenza, includendo in repertorio – negli anni tra il 1966 e il 1968, con otto singoli e un long playing – brani di Donovan, Michel Polnareff, Burt Bacharach, i Box Tops, gli Episode Six, perché «le nostre ricerche erano indirizzate soprattutto sui gruppi inglesi e americani meno conosciuti sul mercato discografico, con quel tipo di sound scarno e aggressivo che noi ascoltavamo con molta attenzione in quanto si avvicinava allo stile che ci apparteneva. Non cercavamo la melodia, cercavamo l’energia, l’originalità, la novità, quello che ci rappresentasse davvero e che in Italia non trovavamo noi e non trovavano tanti giovani».
Per i quattro ragazzi parmensi è fondamentale l’ascolto di Radio Lussemburgo, nel percepire idee originali: «Per noi era l’anteprima della discografia internazionale. Sentivamo i brani dei Beatles e dei Rolling Stones degli esordienti Pink Floyd e Deep Purple. Quando era possibile, perché dovevamo trovarli in prestito, sentivamo anche gli album dei Kinks, dei Them, degli Who e degli Animals. Inoltre, eravamo molto attratti dal blues e dal soul, alla base della nostra formazione musicale. È quello che ci ha permesso di trovare il nuovo sound che negli anni Sessanta, in molti gruppi, ha rivoluzionato il modo di concepire e fare musica». Purtroppo il rapido declino dei Corvi riguarda alcune truffe nei loro confronti, problema abbastanza frequente per i giovani che si approcciano per la prima volta allo show business: «Purtroppo era così. La maggior parte dei gruppi era condizionata dalle case discografiche che facevano il bello e il cattivo tempo. Noi eravamo semplicemente merce di consumo, quindi le anomalie sulle royalties erano all’ordine del giorno. Quando ci siamo accorti che la nostra casa discografica non ci aveva pagato il dovuto, abbiamo rotto il contatto procurandoci una causa. Posso assicurare che non è stata una scelta saggia, ma noi eravamo così, incapaci di scendere a compromessi».
Nell’autobiografia dei Corvi trapelano l’amicizia, la musica, l’anticonformismo, l’idea di gruppo e in tempi recenti il desiderio di evitare un inutile revival ma proporre rock autentico con gente più giovane: «Sono gli ideali che mi accompagnano da sempre. Eravamo ribelli, anticonformisti, volevamo apparire per come eravamo davvero, a costo di scontrarci con i discografici e rimetterci dei soldi, ma solo per un desiderio di sincerità e di onestà. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per passione, per amore della vita e della musica ed è per lo stesso motivo che anche oggi voglio un gruppo vero che faccia musica vera, che nasca dal cuore prima ancora che dalla testa e dall’esperienza».
I «corvini» anni Sessanta, per chi allora era un bambino, sembrano un mondo immaginato dove però tutto si può avverare, dove è in corso una rivoluzione nel modo di suonare, vestirsi, amare, contestare: per Claudio è tutto vero e non a caso, parafrasando il suo libro, sostiene che in certi scantinati «potevi sentire il piacere palpabile e la gioia di ognuno di far parte di un gruppo, o meglio, di un vero e proprio movimento che da lì a poco avrebbe iniziato a delineare i confini tra il nostro mondo e quello degli adulti. All’interno di questo nuovo mondo, ci sentivamo liberi di esprimere tutto ciò che di più magico c’è nella giovinezza: esuberanza, eccesso, coraggio e sessualità e dove chi parlava di tutto ciò non eravamo più noi, bensì la musica, la ‘nostra’ musica. Era un ambiente fantastico che ti faceva sentire libero e accettato… forse perché qualsiasi discorso esuberante, strambo o eccentrico, se fatto con un bicchiere e una chitarra in mano non comporta necessariamente giudizi ma canti e balli».