Fa venire la pelle d’oca sentire Matteo Renzi dire che gli imprenditori devono avere la libertà di licenziare. Mi domando da dove venga, quando lo vedo delegittimare le organizzazioni sindacali in quanto soggetto sociale collettivo; quando lo vedo incontrare gli industriali a Brescia in fabbriche senza operai e quando sento il presidente di Confindustria dire che questo governo realizza i suoi sogni; quando lo vedo omaggiare l’antisindacale Sergio Marchionne in America appena dopo che la Fiat se ne va dall’Italia, avendo succhiato tutto il succhiabile e tagliato tutto il tagliabile; quando lo sento dire – citando il Berlusconi del 23 marzo 2002 – che il milione di lavoratori in piazza il 25 ottobre sono comunque una minoranza dei lavoratori italiani. Non è la sciocchezza delle parole a fare paura sono l’arretratezza e il fuori tempo degli impliciti riferimenti teorici e la petulanza con cui si danno come coraggiose novità al passo con il futuro politiche di provata negatività sociale. Le parole, però, contengono anche l’insulto irredimibile: come si può dire «apartheid» per distinguere tra lavoratori (supposti) garantiti e non garantiti? Neppure la Thatcher con «la società non esiste» e Reagan con le famose welfare queens erano arrivati a tanto.

Se guardiamo indietro, come l’angelo della storia di Walter Benjamin, vediamo alle nostre spalle le miserie e le distruzioni provocate da quasi quarant’anni di politiche neoliberiste. Oggi, a oltre una generazione di distanza da quando Margaret Thatcher e Ronald Reagan andarono al potere, una cosa si può dire con certezza: la vera, grande riforma attuata dai due – l’una nel paese del welfare, l’altro in quello del «patto newdealista» – è stata l’aggressione frontale al mondo del lavoro e alle sue organizzazioni. Tutto il resto, dalla globalizzazione alla finanziarizzazione dell’economia alla crescita delle disuguaglianze sociali, ha girato intorno a quella.

Il primo passo, nel loro caso, è stato istituire un legame diretto tra scelte neoliberiste e strategie antisindacali. Più precisamente, la delegittimazione e la distruzione delle organizzazioni di autodifesa dei lavoratori sono state gli obiettivi primari perseguiti da governi e imprenditori in grado di dettare le scelte economico-politiche. La libertà dei detentori di ricchezza è inversamente proporzionale al potere collettivo dei venditori di forza lavoro. Non importa che, com’era negli Stati Uniti, le organizzazioni sindacali fossero soltanto «economiciste», che cioè non fossero interpreti o portatrici di antagonismo politico (come Renzi dice che è la Cgil in Italia). Era la loro semplice presenza come interlocutore nel processo formalizzato della contrattazione a essere considerato inaccettabile.

La strada fu aperta da Margaret Thatcher, capo del governo nel Regno unito dal 1979. La Thatcher fece quello che nessun governo aveva fatto fino a quel momento. Diede vita a una progressione di attacchi antioperai nei settori dell’auto, della siderurgia e delle ferrovie, fino ad arrivare allo scontro epocale con i minatori di carbone del 1984-85. Invece negli Stati Uniti fu Ronald Reagan il primo presidente che attaccò brutalmente e programmaticamente le organizzazioni sindacali e il mondo del lavoro. Dagli anni Cinquanta in poi – una volta eliminati i «rossi» dai sindacati – nessuno l’aveva fatto. Neppure Richard Nixon.

Il primo atto dell’amministrazione Reagan, entrata in carica a gennaio del 1981, fu la letterale distruzione del sindacato dei controllori di volo (Patco), che avevano attuato uno sciopero non autorizzato. Gli scioperanti furono licenziati, denunciati, processati e mandati in carcere e il loro sindacato fu cancellato. Fu possibile farlo perché il Patco era un piccolo sindacato di élite, con circa 13.000 iscritti. Tra l’altro, aveva appoggiato Reagan contro il democratico Carter nelle elezioni del 1980. Anche per questo la portata simbolica della sua distruzione fu enorme, ben al di là delle sue dimensioni.

L’amministrazione Reagan diceva al mondo imprenditoriale americano che era interamente dalla sua parte. Non avrebbe posto nessun freno alle pratiche già in atto di deindustrializzazione, attacco antioperaio e smembramento delle antiche concentrazioni operaie. Gli imprenditori che nel corso del decennio precedente avevano cominciato a spostare le fabbriche nelle aree rurali del Sud, dove erano state varate leggi statali che proibivano l’organizzazione sindacale, le portarono oltreconfine e oltremare, nello stesso tempo scatenando l’offensiva che nel giro di vent’anni avrebbe sconvolto il mondo del lavoro e portato i sindacati industriali alla irrilevanza. Li combatterono con ogni mezzo, legittimo e non, nei luoghi di lavoro, sfruttando i cavilli e le lentezze della legislazione sul lavoro, con campagne mediatiche su quanto le organizzazioni dei lavoratori fossero dannose per la società.

Nessuno dei successori di Reagan ha avuto bisogno di proseguire sulla sua strada; il più era stato fatto da lui. E nessuno abbandonò il neoliberismo, anche se Clinton – che abolì la legge che separava le banche d’investimento da quelle commerciali, aprendo così la strada al disastro provocato dagli squali di Wall Street del 2008 – riaprì un dialogo, equivoco, con il mondo del lavoro, da cui ebbe l’appoggio elettorale e a cui non diede la nuova legislazione del lavoro promessa. I salari ebbero una lieve crescita, ma il «patto newdealista» tra amministrazione e sindacati e il «compromesso fordista» che prima di Reagan avevano bilanciato occupazione stabile, aumento dei salari e crescita della produttività non furono rinnovati.

Solo Obama, alle prese con una recessione più grave di quelle che coincisero con gli inizi di Nixon, Reagan e George W. Bush, ha cambiato rotta.

Invece di stringere il cappio intorno al mondo del lavoro, ha coinvolto il sindacato dell’auto nell’operazione di recupero del settore, salvando tra le altre cose centinaia di migliaia di posti di lavoro. È ovvio che non ha rovesciato il sistema capitalistico; semmai lo ha salvato, come aveva fatto F. D. Roosevelt con il New Deal, reintroducendo limiti allo strapotere di Wall Street, rialzando le tasse per i più ricchi, offrendo incentivi al rientro delle industrie off-shore, mettendo in atto – finché ha potuto – politiche di incremento delle protezioni dalla precarietà e sottoccupazione e allargando il ruolo dello stato federale nell’economia e nella difesa ambientale. Non ha fatto tutto quello che aveva detto di voler fare, e di questo ci si lamenta, giustamente. Qui abbiamo paura, invece, che Matteo Renzi riesca a fare tutto quello che dice di voler fare.