Che il fenomeno fascista, in senso lato, sia connotato da una lunga durata, prescindendo quindi dal solo regime politico ed istituzionale che, in Italia, gli ha dato forma concreta e compiuta per una ventina d’anni, rimane fatto risaputo. Quanto meno tra coloro che fanno storia e non invece storytelling. Va da sé che nel rimando al fascismo possano ricadere più aspetti di una sorta di tradizione nera, basata sulla ricorrenza di alcuni paradigmi intrinsecamente antidemocratici, illiberali e antisocialisti. All’interno tuttavia, di una dialettica tra potere, consenso e mobilitazione pubblica che è anche parte della nostra modernità. Di cui il fascismo rimane espressione piena e compiuta. Dopo di che, per evitare le legittime obiezioni sul rischio di rendere altrimenti indeterminata una categoria dell’agire politico contemporaneo che, come tale, deve comunque essere circoscritta da alcuni confini, è allora necessario identificare le ricorrenze non di un modello astratto e immutabile, in sé del tutto ipotetico, bensì la capacità di metamorfosi e adattamento di un fenomeno che è anche sociale e sub-culturale. Poiché come tale, investe interi settori della collettività, a prescindere dai concreti successi politici sui quali può eventualmente confidare.

IN ALTRE PAROLE, evitando la persistente tentazione dell’astoricizzazione, rimane tuttavia il fatto che quella peculiare forma di appello alla reazione nei confronti della modernità che porta con sé il richiamo alle folle, il rimando al rapporto intrattenuto da esse con il «capo», l’annientamento del pluralismo non solo politico, l’ossessiva ricerca di una minaccia da neutralizzare, la distruzione dei corpi intermedi sostituiti da un’amministrazione pubblica nelle mani di una sola parte politica, è un orizzonte per nulla trascorso una volta per sempre. Proprio per questo rimane indispensabile l’interrogarsi sul solco da esso lasciato e su come in esso si siano più o meno comodamente adagiati i suoi apologeti ed epigoni. Il libro di Andrea Martini, Fascismo immaginario. Riscrivere il passato a destra (Laterza, pp. 228, euro 22), scava nella relazione tra i trascorsi storici della dittatura mussoliniana e la sua rielaborazione sul piano della comunicazione pubblica nei tempi successivi all’inabissamento del regime, soprattutto negli anni della ricostruzione postbellica.

L’autore, direttore dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, si adopera nel triplice esercizio di indagare sulle dimensioni dell’ampia pubblicistica della destra – estrema e non – dal 1945 in poi, sulla verifica dei suoi contenuti (e con essi dei suoi stilemi retorici) così come sulla ricezione pubblica dei significati veicolativi. Ciò che ne emerge è un fenomeno di diffuso mimetismo antidemocratico che Martini articola su tre piani: il fascismo nel suo lascito storico, il filo-fascismo come «sentimento» irrisolto tra la popolazione e l’anti-antifascismo del giornalismo non solo di area ma, più in generale, del contesto conservatore.
Il primo quesito che l’autore si pone rimanda alla presunta marginalità dell’auto-rappresentazione sia neofascista che anti-resistenziale nel dopoguerra. Di contro ad un comune convincimento, la pubblicazione di materiali che contengono ricostruzioni in accordo con il rigetto della lotta di Liberazione non solo è invece consistente ma diffusa soprattutto nella stampa periodica ad ampia distribuzione. A partire da alcuni settimanali illustrati di intrattenimento.

C’È SENZ’ALTRO, come elemento a sé stante, tutta una vulgata underground, espressamente neofascista, spesso di stampo memorialistico. Nel suo insieme, è intenzionata non solo a rigettare il costituzionalismo repubblicano e democratico ma anche a regolare i conti al proprio interno tra «martiri» e «traditori», esaltando quindi il connubio tra l’archetipica figura di Mussolini e la tragica traiettoria della Repubblica sociale italiana.
Dopo di che, per sottrazione, rimane il resto. Che è costituito da un vero e proprio magma di pubblicazioni, a larga diffusione, nel quale i tradizionali temi conservatori vengono ibridati dagli echi del fascismo da poco trascorso. Gli assi portanti della costruzione di una sorta di tradizione anti-antifascista, spesso basata su un anticomunismo tanto viscerale quanto «popolare», quindi alla portata di molti lettori (in un’epoca di robusto semianalfabetismo) ruotano intorno all’«apotismo» rivendicato da Leo Longanesi. Si tratta di quell’atteggiamento pseudointellettuale che sottolinea il fatto che l’autentica intelligenza sarebbe prerogativa di coloro che ne fanno non un uso critico bensì meramente oppositivo, polemico e comunque aprioristicamente basato sullo scetticismo programmatico. Un qualcosa che rimanda al convincimento che «noi non ce la beviamo», a partire dal quale rigettare ogni comunicazione pubblica poiché inficiata, in sé, di una qualche deliberata falsificazione, funzionale a inconfessabili interessi di gruppo. In un tale calderone di sospetti e rigetti ricade tutta l’interpretazione dell’età partigiana.

Un altro elemento che rafforza il discorso anti-antifascista è quasi da subito l’atteggiamento, divenuto ben presto assai popolare, di Indro Montanelli, laddove questi aveva immediatamente inteso quali fossero le autentiche potenzialità aggregative per un’ampia area di opinione sostanzialmente conformista e qualunquista. Non a caso il giornalista, che sarebbe divenuto rapidamente il campione di un’Italia assai tiepida verso gli ordinamenti democratici, comprese già nel 1945-46 che la riabilitazione selettiva di alcuni aspetti di Mussolini (e del regime fascista) potessero essere funzionali al marketing politico basato sulla mobilitazione di ampie fasce di lettori ed elettori rispetto a schemi di senso comune.

LE STRATEGIE RETORICHE, nel qual caso, presentano due polarità. Nella prima si indulge nella descrizione, a tratti morbosa, comunque sospesa tra scandalismo posticcio, falso intimismo ed enfatica indiscrezione, di aspetti strettamente personali e di costume del dittatore come del suo entourage. Si tratta di un «biografismo ombelicale nel quale scompaiono le politica e la storia e rimane solamente un pugni di aneddoti pruriginosi» (Luca Casarotti). La visuale è quella dei subalterni che spiano, compiaciuti, dal buco della serratura, i vizi privati che si sommano a presunte pubbliche virtù dei «potenti». Nel secondo caso, ci si adopera per separare Mussolini, del quale si continua invece a coltivare la mitografia personalistica, sia dagli aspetti maggiormente deteriori del fascismo così come, soprattutto, dagli effetti dell’alleanza con Hitler.

IL VERO PUNTO DI SINTESI di questa strategia rimane la depoliticizzazione dell’esperienza fascista, quindi delle sue responsabilità nella catastrofe in cui aveva precipitato, insieme alla monarchia, l’Italia intera dal 1922 in poi. A cascata, da questo vero e proprio background di significati assiomatici, insindacabili, apodittici deriva la rivalutazione, assai repentina, di tutta una serie di argomenti che sono giunti fino ad oggi, costituendo materia non tanto di discussione quanto di asserzione: la retorica ridondante del «superamento delle divisioni tra gli italiani»; la rivendicazione del monopolio di una «scrittura autentica», tale poiché non intossicata da un’ideologia di parte (esattamente l’immagine che il fascismo voleva dare di sé stesso); la lotta partigiana come mero capitolo di una «guerra civile» etero-diretta dai «comunisti»; l’esaltazione dell’«inchiostro dei vinti», intinto nel sangue del loro «sacrificio» (l’ultima stagione pubblicistica di Giampaolo Pansa corrisponde in pieno al recupero di questi motivi di fondo); il duplice movimento per il quale nel mentre si nascondono le nefandezze di certuni, del pari si enfatizza l’azione di altri, a compensazione della totale brutalità di quegli anni.

Fino alla preventiva riabilitazione, in chiave neonazionalista, di corpi come la Decima Mas. Una costruzione discorsiva così ampia, diffusa e capace di costruire arcipelaghi di dominio nella pubblica opinione, nel passato così come nel nostro presente, non può essere facilmente liquidata come il prodotto di una devianza residuale. In realtà, dalle macerie del 1945 ad oggi, alle narrazioni repubblicane e democratiche si sono spesso affiancate, sedimentandosi nel comune sentire, atteggiamenti mentali, prima ancora che costrutti ideologici, che si basano sulla diffidenza preventiva verso ogni forma di pluralismo e di coesistenza. Da adesso in poi, bisognerà capire quale sarà l’uso che di tutto ciò, ossia di un tale lascito, la destra post-costituzionale, in Italia, in Europa, nel mondo, vorrà fare a proprio beneficio. A volere dire che la partita è totalmente aperta.