La pratica di spargere sui terreni agricoli i fanghi che derivano dal trattamento delle acque civili e industriali è stata sempre vista con preoccupazione da parte di chi persegue una agricoltura libera da veleni. Non si è mai fatta una seria valutazione sui rischi che i fanghi di depurazione possono comportare per la salute umana e l’ambiente, limitandosi a celebrare il loro potere fertilizzante. La recente indagine della Procura di Brescia ha portato alla luce le dimensioni del disastro ambientale che si è prodotto in vaste aree agricole a causa dell’impiego di fanghi tossici. Dalla mappa dei territori contaminati emerge che è il cuore produttivo dell’agricoltura italiana ad essere colpito.

L’INCHIESTA HA EVIDENZIATO che tra il 2018 e il 2019 ben 150 mila tonnellate di fanghi tossici, provenienti dall’azienda bresciana Wte, sono stati sparsi su 3 mila ettari di terreni di 176 aziende agricole di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna. Sono 12 le province e 78 i comuni coinvolti nelle quattro regioni. Sono 31 i comuni della provincia di Brescia, 14 in quella di Cremona, 11 nell’area milanese. Abbiategrasso, Magenta, Legnano, Parabiago, comuni in cui sono stati riscontrati gli spandimenti, sono alle porte di Milano. I suoli avvelenati si trovano anche nel pavese, in provincia di Como, nel vercellese, nel piacentino, a Novara, Verona. Una vasta area in cui vivono milioni di persone.

SI TRATTA DI TERRITORI IN CUI si è affermata una agricoltura intensiva che ha messo al centro di tutto la produttività, obiettivo perseguito facendo ricorso a un grande impiego di fertilizzanti sintetici e pesticidi. Anche il massiccio utilizzo di fanghi di depurazione, per fertilizzare i terreni a costi contenuti, rientra in questa logica. L’azienda Wte trattava nei suoi stabilimenti i fanghi di depurazione allo scopo di ottenere fertilizzanti, ammendamenti e correttivi per l’agricoltura. Per invogliare gli agricoltori a prendere i suoi prodotti, arrivava a farsi carico dei lavori di aratura successivi allo spandimento. Il traffico di fanghi andava avanti da anni tra la protesta dei «comitati antipuzza» e senza alcun intervento da parte delle autorità sanitarie.

IL PROBLEMA E’ CHE MANCA una tracciabilità dei fanghi, i controlli sono casuali, non si sa cosa contengono e quando e dove vengono sparsi. Scrive il Gip di Brescia Elena Stefana nella sua Ordinanza: «Nei campioni in uscita dall’azienda e che sono stati sparsi sui terreni, le sostanze inquinanti (fluoruri, solfati, cloruri, nichel, rame, selenio, arsenico, idrocarburi, zinco, fenoli) erano decine, se non centinaia di volte superiori ai parametri di legge». Nell’inchiesta si fa riferimento all’espressione usata nel corso di una telefonata da uno degli indagati: «Chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi…».

PER QUEST’ANNO LA RACCOLTA DEL MAIS è stata bloccata e le aziende agricole sono state poste sotto sequestro per valutare il livello di contaminazione dei suoli e intraprendere le necessarie opere di bonifica. Si tratta di una attività complessa per la vastità dell’area e perché si deve intervenire sui primi 30 cm di suolo, che corrispondono a un totale di 10 milioni di metri cubi di terreno. Ma come si è arrivati a questo impiego generalizzato di quello che viene definito con l’accattivante termine di «fango biologico di depurazione»? Come si è affermata questa pratica di spandimento incontrollato sui terreni agricoli? Quale è stato il percorso che ha portato l’Italia ad essere il paese europeo che detiene il primato per la quantità di fanghi tossici sparsi nei campi, oltre ad essere il paese che fa più uso di fertilizzanti sintetici e pesticidi?

SECONDO LA NORMATIVA ATTUALE i fanghi di depurazione, dopo aver subito un adeguato trattamento, possono essere destinati al settore agricolo o utilizzati per produrre energia. Il sistema più utilizzato è lo spargimento sui terreni agricoli. Il decreto legislativo n.75 del 2010 rende possibile trasformare i fanghi di depurazione in fertilizzanti, dopo il trattamento con calce viva (ossido di calcio) per igienizzarli. Ulteriori trattamenti portano alla formazione di prodotti che sono definiti «gessi di defecazione» o «carbonati di defecazione», largamente impiegati nei terreni agricoli.

IN ALCUNE REGIONI COME LA LOMBARDIA il 95% dei fanghi di depurazione viene trasformato in gessi di defecazione da destinare al settore agricolo. Questi prodotti, inseriti nella normativa nazionale come fertilizzanti per correggere il pH dei terreni eccessivamente acidi o alcalini, sono usati in modo incontrollato. La normativa è carente sia per quanto riguarda la tracciabilità che per il controllo presso gli impianti dove vengono trattati i fanghi. Inoltre, manca una rilevazione delle aziende agricole che li utilizzano. Non c’è alcun obbligo di effettuare l’analisi chimico-fisica dei suoli prima e dopo lo sversamento.

NEL 2017 E’ STATO COSTITUITO il Comitato tutela dei suoli agricoli lombardi con lo scopo di imporre la tracciabilità dei gessi di defecazione e di tutti i prodotti che derivano dai fanghi di depurazione. La filiera agricola italiana deve fare i conti con l’inquinamento dei suoli dovuto ai fanghi di depurazione che contengono idrocarburi, metalli pesanti e altri inquinanti come antibiotici, ormoni, composti organici proveniente da detergenti. Numerosi convegni hanno celebrato in questi anni questa «economia circolare» dei rifiuti provenienti da acque reflue che si trasformano in risorsa per l’agricoltura. In realtà, i campi non hanno tratto grandi benefici da un punto di vista della fertilità, mentre è cresciuto il livello di inquinamento dei suoli. Lo spandimento dei fanghi di depurazione è diventato una delle attività più redditizie, con forti pressioni sugli agricoltori per convincerli a mettere in atto questa pratica.

SECONDO L’ISPRA, OGNI ANNO IN ITALIA si producono circa 3 milioni di tonnellate di fanghi civili e 700 mila tonnellate di fanghi industriali. Nessuno è in grado di dire con esattezza quanti di questi fanghi finiscono nei campi. In questi anni i vari governi non hanno affrontato il problema. Nel 2018 la denuncia degli abitanti di alcuni comuni delle province di Pavia e Lodi aveva portato ad una sentenza del Tar della Lombardia che vietava lo spargimento dei fanghi sui terreni agricoli della regione. Le prese di posizione dei gestori degli impianti di depurazione e dei Comuni, che avevano difficoltà nello stoccaggio dei fanghi, spinsero il governo a trovare un posto per i fanghi nel «Decreto Genova», varato all’indomani del crollo del ponte Morandi.

VENIVANO AUMENTATI DI 20 VOLTE i limiti consentiti nei fanghi per gli idrocarburi, passando da 50 mg a 1000 mg per chilogrammo. Da allora la situazione è peggiorata e la questione fanghi è sempre più all’ordine del giorno. Non si può chiedere tutto al Recovery fund, ma è necessaria l’adozione di un piano nazionale per ridurre la produzione di fanghi di depurazione, come avviene per i rifiuti solidi urbani, favorendo l’utilizzo di metodi di fitodepurazione da parte degli enti locali e delle imprese nel trattamento delle acque civili e industriali.