A cento anni dalla fondazione del Pci, mentre in tanti cercano di individuarne la fisionomia e di trarre un bilancio politico, sorge spontanea una domanda che solo raramente è stata posta: qual è stato il rapporto tra il Pci e il calcio, da sempre fenomeno popolare? Il Pci e i suoi dirigenti, da Gramsci a Berlinguer, individuarono lo spirito collettivo del calcio, tanto che L’Ordine Nuovo e l’Unità gli organi di stampa del Pci, dedicarono sempre alcune pagine a questo sport.

La grande emigrazione dei meridionali negli anni ’60 verso il Nord, consolidò le tifoserie dell’asse Torino-Milano e quegli operai militanti del Pci che nei cortei degli anni ’70 gridavano «Agnelli-Pirelli ladri gemelli» non di rado la domenica allo stadio tifavano Juventus, Inter, Milan. Oggi il Pci non c’è più, resta solo il calcio, l’ultima religione del nostro tempo, secondo Pasolini.

Ne parliamo con Aldo Agosti, professore emerito dell’Università di Torino, che ha scritto libri sulla storia dei movimenti socialista e comunista in Italia e nel mondo, tra cui una biografia di Togliatti (Utet 1996) e Storia del Pci (Laterza, 1999). Con Giovanni De Luna è autore di Juventus. Storia di una passione italiana (Utet 2019).

Nel 1921 si costituì il Pcd’I a Livorno. Su «L’Ordine Nuovo» quotidiano che dirigeva, Antonio Gramsci riservò spazio al calcio operaio. Quale fu il rapporto tra Gramsci e il calcio?
Già prima della guerra il calcio aveva allargato la sua popolarità al di fuori delle élite più ristrette che ne avevano promosso lo sviluppo: era in sé uno sport alla portata anche delle classi meno abbienti. Nella Torino del primo dopoguerra c’era un tessuto già abbastanza fitto di società polisportive che lo praticavano, e L’Ordine Nuovo quotidiano non poteva non tenere conto degli interessi di una parte significativa dei suoi lettori. Certamente a Gramsci il calcio piaceva, come dimostra un articolo che scrisse sull’ Avanti! del 1918: vi esaltava «il movimento, la gara, la lotta, regolate da una legge non scritta che si chiama ‘lealtà», apprezzava l’immagine che rimandava di «paesaggio aperto, circolazione libera dell’aria, polmoni sani, muscoli forti, sempre tesi all’azione».

È vero che Antonio Gramsci tifava Juventus?
Nel 1988 un’autorevole rivista di storia e cultura dello sport pubblicò una lettera di Gramsci a Sraffa in cui si parlava della «nostra Juventus», ma si rivelò una bufala. Se proprio si vuole cercare un rapporto tra L’Ordine Nuovo e la Juventus, lo si può trovare nella presenza nel suo direttivo di Elia Terracini, cugino e mentore di Umberto Terracini, bonariamente sfottuto sul giornale sociale come «bolscevico».

Palmiro Togliatti dichiarò apertamente il suo tifo per la Juventus e anche il segretario della CGIL Luciano Lama. Perché la Juve degli Agnelli, velatamente o apertamente, ha sempre attratto i dirigenti del Pci?
La scelta della squadra di elezione ha ragioni che possono essere molto soggettive, e quindi poco generalizzabili, oppure avere a che fare con rapporti amicali, tradizioni familiari o locali. Così la fede juventina di Togliatti risale probabilmente al suo passato di studente universitario a Torino, un ambiente nel quale la Juventus vantava numerosi soci e sostenitori. Luciano Lama, invece, si può supporre che fosse juventino prima di tutto perché romagnolo. In ogni caso, credo non sia possibile stabilire un’associazione fra opinioni politiche e tifo calcistico. Tanto per uscire dall’ambito juventino, tra i tifosi illustri dell’Inter si contavano il missino Franco Servello e il comunista e partigiano Armando Cossutta.

Gli intellettuali vicini al Pci appassionati di calcio, dal 1945 in poi, tifavano apertamente per una squadra oppure manifestavano ritrosia nel dichiararlo?
Fino agli anni ’80 almeno, l’appartenenza a una fede calcistica era raramente sbandierata dagli uomini politici di qualsiasi partito, si preferivano tenere separate le due sfere. Tra i comunisti la dichiarazione della propria fede calcistica era ancora più rara: Togliatti prima e Lama poi rappresentarono un’eccezione. Fu nel clima degli anni ’80 che la politica cominciò ad ammiccare allo show business e anche al calcio: divenne di dominio pubblico che Giulio Andreotti teneva per la Roma, Bettino Craxi per il Torino, Silvio Berlusconi per il Milan. Ma sul suo dichiarato tifo per il Milan Berlusconi costruì abilmente una parte della sua fortuna.

La base del Pci, rispetto al tifo calcistico aveva lo stesso atteggiamento dei vertici del Partito?
Credo che la base del Partito comunista abbia rispecchiato quelle stesse divisioni e stratificazioni che caratterizzano il tifo calcistico in generale, ricalcando in particolare certe tradizioni radicate già dagli anni ‘30. Senza riguardo all’orientamento elettorale rispettivo, la Romagna «rossa» è storicamente juventina, come lo è la Brianza «bianca». Un certo rimescolamento è certamente avvenuto con la grande immigrazione dei meridionali al Nord negli anni ’60, che ha avuto l’effetto di robuste iniezioni di tifo juventino nelle grandi metropoli, compresa la stessa Torino e la sua classe operaia, prima certamente più tifosa del Torino.

Quale fu il rapporto tra il Pci e il calcio?
Per limitarci alla storia dell’Italia repubblicana, il Pci non ha mai avuto, nel rapportarsi con il calcio, difficoltà simili a quelle che ha mostrato inizialmente rispetto a fenomeni ugualmente pop come la televisione d’intrattenimento, il cinema hollywoodiano o la musica rock. Ha cercato subito di utilizzarne la grande popolarità come mezzo di aggregazione soprattutto dei giovani, sfidando la concorrenza della Chiesa cattolica nell’occupazione degli spazi della socialità, e in parte vi è riuscito. Rispetto al calcio professionistico, ha preso qualche distanza dai fenomeni più clamorosi di divismo o dalle follie economiche del mercato, ma non ha mai assunto un atteggiamento «snobistico»: fin dalla fine degli anni ’40 la cronaca calcistica de l’Unità occupava almeno due pagine dell’edizione del lunedì e rivaleggiava per competenza con quella dei quotidiani «indipendenti».