In occasione delle recenti elezioni per il Parlamento europeo si è per forza di cose tornati a riflettere su quali siano le basi comuni dell’Europa, sul bisogno di maggiore trasparenza, oltre che naturalmente sui problemi economici che ci attanagliano. Gli euroscettici guardano nella direzione di quei paesi che all’Ue non hanno voluto aderire, o che magari ne sono usciti. E ogni tanto si è sentito parlare dell’Islanda e della sua decisione di avviare contro la crisi economica e istituzionale una versione delle vecchie tradizioni assembleari, risalenti addirittura alla prima colonizzazione scandinava del X secolo, riviste in chiave digitale: la democrazia diretta 2.0, potremmo definirla. Dall’esperienza dell’Islanda contemporanea prende spunto Lorenzo Tanzini nel suo A consiglio. La vita politica nell’Italia dei comuni (Laterza, pp. 240, euro 22) per invitare a una riflessione sulle forme istituzionali assembleari che trovarono nella storia comunale italiana il proprio apice.

Le oligarchie cittadine

Il comune medievale, come forma specifica di autogoverno di un nucleo demico, corrispose a un fenomeno socio-istituzionale diffuso nell’Europa occidentale e centrale fra XI e XIV secolo, che però raggiunse un livello di sviluppo civile e di autocoscienza politica soprattutto nell’Italia centrosettentrionale, più specificamente nella pianura padana, nel Veneto occidentale e in Toscana: insomma, nell’àmbito di quello che dall’VIII-IX secolo era stato il Regnum Italicum che dal X ai primi del XIX secolo sarebbe restato istituzionalmente collegato al regno di Germania e al Sacro Romano Impero, per quanto questo collegamento fosse divenuto largamente, in età moderna, una fictio iuris. Questo sistema di governo cittadino si sviluppò proprio tra XI e XII secolo – in significativa e stretta coincidenza con la maturazione del nuovo sviluppo economico e commerciale delle città occidentali, specie di quelle affacciate sul mare – e colse anche la possibilità di tradursi in termini di diritto pubblico grazie al coinvolgimento, nel nascente movimento appunto definito «comunale», di un forte e intraprendente ceto di giurisperiti.
Le oligarchie cittadine costituite di possessores fondiari, di milites, che esercitavano però anche il commercio e nelle città marinare l’attività cantieristica e armatoriale dettero pertanto luogo al sorgere di magistrature collegiali espresse dal loro stesso seno e quindi variamente riconosciute e legittimate dall’autorità episcopale e da quella regia esercitata per delega dai vari poteri locali: tali magistrati si dissero in genere consules. Essi venivano eletti in numero e per un periodo variabili da città a città ed erano in genere espressione delle famiglie più ricche e potenti. Le aristocrazie militari, i gestori delle attività commerciali e i ceti intellettuali furono i tre grandi protagonisti dell’impiantarsi della cultura comunale, dove l’assemblea era appunto il luogo dove si prendevano le decisioni collettive; sebbene il rapporto fra teoria e pratica, come si intitola un capitolo centrale del lavoro di Tanzini, vada sempre analizzato attentamente se si vogliono comprendere i non facili meccanismi di ampliamento e di riduzione degli ammessi ai consigli che guidavano le sorti politiche dei comuni. E dunque la loro capacità di rappresentare effettivamente una parte più o meno consistente della popolazione cittadina.

Una ardita formulazione

Si trattò di una peculiarità soprattutto italiana. Fuori d’Italia le istituzioni comunali si adattarono difatti agevolmente a rientrare, a partir dal XII-XIII secolo, nel quadro delle monarchie feudali avviate a divenir stati assoluti, si può dire che solo nella penisola la civiltà comunale, sia pure al suo tramonto – quando cioè le autonomie cittadine si stavano aggregando ed evolvendo nella forma dello «stato regionale», mentre le istituzioni relative si avviavano verso soluzioni di tipo «signoriale» e quindi principesco –, assunse i caratteri di una piena coscienza autonomica. Nel pieno Trecento fiorentino, Coluccio Salutati giungeva a rivendicare al Comune di Firenze la dignità dello stato superiorem non recognoscens, con ciò denunziando la fino ad allora praticamente irrilevante ma giuridicamente irrinunziabile dipendenza della città dall’impero: quell’ardita formulazione, poi accantonata per secoli, sottolinea tuttavia il fatto che il Comune italiano non si può paragonare né alla bonne ville royale francese, né alla Kaiserstaat germanica.
Al rapporto fra comuni italiani e quell’impero al quale essi appartenevano è dedicato il bel libro di Paolo Grillo, Le guerre del Barbarossa. I comuni contro l’imperatore (Laterza, pp. 262, euro 20), che ripercorre un grande tema storiografico; anch’esso talvolta oggetto di attualizzazioni, ma in questo caso generalmente poco felici. Il testo segue la vicenda dal primo contatto, ch’è anche il titolo del capitolo iniziale, avvenuto in un momento difficile sia per l’impero, nel quale le lotte per il dominio fra i pretendenti alla corona si erano momentaneamente risolte con l’elezione dello Svevo, sia per i comuni, a causa dello stato d’anarchia in cui versava la Lombardia. Non bisogna infatti dimenticare che, accanto alla vivacità della vita pubblica della quale parla Tanzini, i comuni italiani erano costantemente attanagliati da conflitti fra città e fra fazioni.

Una vittoria ambivalente

Grillo segue la vicenda passo passo, arrivando fino alla sconfitta del Barbarossa a Legnano nel 1176 (battaglia alla quale l’autore ha già dedicato un’opera precedente a questa) e alle prospettive che a quel punto si aprirono sia per l’imperatore (che aveva ancora molte carte politiche e diplomatiche da giocare) sia per i comuni in quel momento trionfatori. Le guerre del Barbarossa non attualizza il tema indebitamente e invece penetra a fondo nelle questioni all’origine del conflitto: istituzionali, economiche, ma anche culturali. Senza dimenticare la storia militare, evidentemente importante nell’ambito degli interessi storiografici di Grillo. Con la fine della guerra, nella pace di Costanza del 1183, ai comuni vennero riconosciuti i diritti ai regalia e in pratica all’autonomia: essi avevano quindi vinto sul piano sostanziale. Tuttavia, su quello formale, l’imperatore aveva ottenuto la loro sottomissione: essi accettavano dalle sue mani quei diritti come una concessione, e con ciò l’impero riaffermava le sue prerogative, come si sarebbe visto qualche decennio più tardi con la ripresa degli scontri al tempo di Federico II.