Il proprietario come «signore del proprio castello», che può fare ciò che vuole delle cose che possiede? È l’idea liberale classica del diritto di proprietà, praticamente un dogma nella cultura politica e giuridica degli Stati Uniti. Fino ad oggi: perché nuovi indirizzi stanno disegnando un panorama in movimento. Verso il meglio. A queste conclusioni giunge Anna di Robilant, docente alla facoltà giuridica dell’Università di Boston, studiosa delle evoluzioni nel diritto di proprietà in Usa e in Europa, intervenuta al Festival dei beni comuni di Chieri (Torino) conclusosi domenica.

Professoressa di Robilant, negli Stati Uniti si sta scoprendo che la proprietà privata deve avere una funzione sociale, come è scritto in molte costituzioni europee, a partire dalla nostra?

Sì, e infatti c’è un nuovo interesse nei confronti dell’elaborazione politico-giuridica della tradizione europea continentale (in particolare francese, tedesca e italiana) in merito al diritto di proprietà. Fra gli studiosi si fa largo la democratic property theory, «teoria democratica della proprietà»: gli autori di riferimento sono, fra gli altri, Jospeh Singer e Gregory Alexander, che sostengono che la funzione della proprietà è quella di regolare in modo democratico ed inclusivo le relazioni tra soggetti proprietari, ma anche tra i proprietari e il resto della comunità, cioè comprendendo anche i non proprietari. Il modello è quello della democrazia deliberativa. Per la cultura giuridica statunitense è un grande passo avanti rispetto alle due idee tradizionalmente egemoni. La prima, quella liberale, che vede nella proprietà ciò attraverso cui si realizzano senza limiti le preferenze di chi possiede. La seconda, quella repubblicana, in base alla quale la funzione della proprietà è creare la struttura dell’ordine sociale. Ora abbiamo un terzo paradigma.

Ha fatto cenno all’influenza della tradizione del diritto sociale europeo: qual è invece il peso che hanno le due principali dottrine gius-filosofiche progressiste americane, cioè quelle di John Rawls e Ronald Dworkin?

Per gli autori che ho citato senza dubbio Rawls e Dworkin sono molto importanti. Però direi che è più evidente il riferimento al filone neo-aristotelico, rappresentato soprattutto da Martha Nussbaum e Amartya Sen: c’è un grande recupero della riflessione sulle virtù, ad esempio. E, per quanto riguarda i riferimenti al pensiero economico, resta fondamentale l’elaborazione della premio Nobel Elinor Ostrom, grande studiosa dei commons. E posso aggiungere, su un piano diverso, che più in generale questa nuova dottrina sulla proprietà si inserisce in una stagione di nuova forza del pensiero progressista negli Stati Uniti. Ci sono, come ovvio, anche forti contro-spinte: ma le facoltà di giurisprudenza sono senza dubbio intellettualmente più aperte e politicamente più coraggiose di un tempo.

Ciò di cui stiamo parlando riguarda soltanto teorie di studiosi o è possibile vederne anche riflessi nella realtà sociale?

Ne vediamo già molte realizzazioni, riconosciute anche in numerose sentenze di tribunali. Ad esempio, le common interest communities, simili ai nostri condomini, definite dai tribunali più avveduti come «mini-società democratiche». Poi il community land trust, probabilmente la realtà più rilevante. Funziona così: un’organizzazione no profit possiede un terreno su cui costruisce unità abitative che poi vende a privati, e al momento della successiva vendita ha un diritto di prelazione e quindi la possibilità di ricomprare l’immobile, garantendo in questo modo sul lungo termine l’accessibilità economica di queste unità abitative. Tutte le decisioni su gestione e trasferimento di queste case sono adottate da un consiglio di cui fanno parte i residenti di quelle unità abitative, affittuari compresi, ma anche i residenti della comunità circostante: in questo modo i rischi di speculazione, di «gentrificazione», diminuiscono, e di conseguenza i rischi che gli abitanti poveri vengano espulsi per «riqualificare» la zona. Faccio ancora un terzo esempio: il public trust. Qui parliamo di enti che gestiscono beni pubblici come laghi o fiumi, che vengono sempre più spesso obbligati a gestire democraticamente il bene che amministrano: i cittadini hanno più strumenti di prima per contestare decisioni che non condividono.

Gestione della proprietà attraverso meccanismi di democrazia deliberativa non significa, però, automaticamente che la società diventi socialmente più equa: le basi strutturali delle diseguaglianze restano…

È vero. Anche se i giuristi legati alla visione liberale tradizionale, alla law economics, ritengono che la «teoria democratica della proprietà» sia una dottrina quasi socialista, guardando da sinistra non dobbiamo nasconderci i suoi limiti. La democrazia deliberativa applicata alla gestione della proprietà non è certo sufficiente per superare l’esclusione sociale. Può però farla venire più facilmente a galla, questo sì. In ogni caso, da studiosa di diritto sono la prima a riconoscere che le forme giuridiche di gestione dei beni possono senza dubbio essere utili a migliorare la società, ma ad un certo punto la loro forza si arresta: e lì esiste solo l’attivismo politico che può davvero combattere l’emarginazione, e quindi le diseguaglianze.