Il 14 luglio del 1916 il rumeno Tristan Tzara si presenta al pubblico interpretando due canti «negri», mentre Hugo Ball è alla batteria. Lo spaesamento sistematico viene potenziato dal ritmo di una sintassi libera, non comprensibile, istantanea ed effimera. L’anno dopo, il 14 aprile del ’17, sarà la volta di una festa in occasione dell’inaugurazione di una mostra: musiche e balli (c’è anche la compagna di Tzara, Maya Chrusecz) guidano  l’evento e i danzatori indossano le maschere realizzate da Janco, ispirate a modelli africani e dell’Oceania. Sono simulacri che servono per risvegliare altri istinti, mondi inconsueti, per sradicare ognuno dalle proprie certezze e allargare i confini geografici. L’estasi e la trance ludica praticata nelle serate dada trova il suo contraltare nell’atteggiamento da erudito di Tzara, che consulta avidamente i migliori africanisti del suo tempo, come il tedesco Frobenius. Più approfondisce quella cultura, più l’idea di un primitivismo pittoresco si allontana e prende forma una nuova concezione dell’occidente: sfibrato dalla guerra e in piena carneficina, viene rigenerato dalle sue fonti che sovvertono l’ordine e le abitudini mentali degli spettatori. La tabula rasa, il grado zero riparte da qui, suoni, grida, rumori, parole che appartengono a una comunità che molti borghesi ritengono «selvaggia», o al più «esotica» e che invece sprigiona forza vitale e spontanea, la stessa che nutre la funzione poetica. Tzara pubblicò anche sulla rivista Dada la «Chanson du Cacadou» della tribù Aranda e riadattò per i lettori francesi una raccolta di «Poèmes nègres». Li considerava un’incursione speciale dentro «la struttura primitiva della vita affettiva».

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Marcel Janco, Mask

La mostra Dada Afrika. Dialogue avec l’autre che si è appena aperta al museo Rietberg di Zurigo, in collaborazione con la Berlinische Galerie di Berlino (visitabile fino al 17 luglio, a cura di Michaela Oberhofer e Esther Tisa Francini per la Svizzera, Ralf Burmeister per la sede tedesca, inaugurazione il 5 agosto) rende omaggio con settanta opere alla magia di quegli incontri d’inizio secolo, quando nel Cabaret Voltaire si poteva vedere Emmy Hennings scatenarsi in un ballo apache o Sophie Taeuber Arp danzare sulle parole del poema di Ball Poissons volants et hippocampes.
«I dadaisti, in particolare modo Tristan Tzara – spiega la curatrice Esther Tisa Francini -, si interessavano ai linguaggi del Pacifico e ai canti africani. Tzara li andava a studiare nella biblioteca di Zurigo, consultando gli scritti degli etnologi. Prendeva i testi e li cambiava di poco. Poi li recitava nelle «soirées nègres»: nasceva così una forma specifica della poesia sonora. Soltanto decenni più tardi si è scoperto che non erano tutte sue invenzioni, ma che aveva ripreso davvero alcuni testi dei maori ecc. La ricezione si basava su quello che era reperibile all’epoca».

L’interesse vivace per le culture non occidentali ha segnato le rivoluzioni linguistiche delle avanguardie. Esiste una differenza sostanziale nell’approccio cubista alle forme dell’«altrove» rispetto a quello dei dadaisti?
Si può affermare che i cubisti partivano da un interesse formal-estetico e individuavano nell’arte africana una fonte d’ispirazione. Con un atteggiamento eurocentrista favorivano un’appropriazione dei loro linguaggi. Se alcuni tratti venivano considerati autentici, i cubisti li trasformavano in elementi della loro arte. Era un modo di avvicinarsi all’espressione artistica copiando alcuni segni stilistici della scultura africana.

I dadaisti sono stati anche dei collezionisti compulsivi di opere africane, come gli espressionisti tedeschi, i fauves francesi, Picasso ?
Il più grande collezionista è stato Han Coray, ma non era un dadaista. Era invece il gallerista dei dada. Il Museo Rietberg oggi può contare su duecentocinquanta opere che provengono dalla sua raccolta, in cui figuravano circa tremila oggetti africani. Ma fra gli artisti, il più assiduo collezionista è stato Tristan Tzara. Fu proprio attraverso la sua mediazione che, nella prima esposizione dei dadaisti a Zurigo, nella galleria di Han Coray, venne presentata anche l’arte africana.  Abbiamo rintracciato proprio la figura maschile «baule», portata a Zurigo dal dealer Paul Guillaume di Parigi (oggi è in una collezione privata francese), e la presentiamo nella nostra esposizione fra i lavori dei dadaisti (la scultura si vede anche in alcuni ritratti di Guillaume campeggiare sopra un mobile della sua stanza, ndr). Tzara comprava soprattutto a Parigi, dove esisteva un mercato importante di manufatti e arte africana.

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Gli artisti del Cabaret voltaire (Hennings, Tzara, Sophie Taueber, Arp, Janco, Ball)

Quale era il senso che i componenti del movimento dada davano alle culture «altre»?
I dadaisti, essendo un gruppo transnazionale e coltivando un interesse sincero per le culture non-europee, volevano superare le frontiere e il colonialismo. Integrando les «soirées nègres» nel loro movimento, recitando i «poèmes nègres» rompevano con l’arte tradizionale e cercavano un nuovo linguaggio e un’estetica originale. L’azione performativa, gli esperimenti con materiali ephémère, la poesia sonora stessa erano espedienti tesi a creare una sorta di «Gesamtkunstwerk» che segnava una rivoluzione nell’arte.

La mostra è riconducibile a un tema centrale?
La rassegna Dada e Afrika mette in luce la rivitalizzazione dell’arte attraverso i dadaisti, la ricerca di un inedito linguaggio artistico legata a un confronto con le espressioni non-europee. Presentiamo opere di Marcel Janco, di Sophie Taeuber-Arp, di Hannah Höch – ma anche di Man Ray, Hans Arp e altri – insieme all’arte africana, oceanica, asiatica. Sono tutte poste sullo stesso livello. Il dialogo fra le produzioni dadaiste e quelle extra europee, scaturito da profonde ricerche storiche, ha rivelato un nuovo aspetto della loro poetica.