Il Premio Nobel per la fisica ha premiato anche quest’anno l’astronomia, e lo ha fatto guardando gli oggetti più misteriosi che popolano il nostro universo: i buchi neri. Il Comitato del Nobel ieri ha anche aumentato in un solo colpo di ben il 33% il numero delle donne a cui è stato attribuito il premio negli ultimi 119 anni: con l’astrofisica statunitense Andrea Ghez, le Nobel in fisica passano da 3 a 4 (l’ultima era stata nel 2018 la fisica canadese Donna Strickland).

Oltre a Ghez, hanno ricevuto il premio di ieri il matematico britannico Roger Penrose e l’astrofisico tedesco Rheinard Genzel, che è direttore di un centro del Max Planck Institut a Garching, sede anche dell’ESO – l’Osservatorio europeo del sud, dai cui telescopi in Cile Ghez e lo stesso Ghenzel hanno potuto osservare a lungo le stelle che orbitano attorno al buco nero che occupa il centro della nostra galassia: SgrA*, nella costellazione del Sagittario.

Metà del premio va a Penrose, un gigante della cosmologia e autore di diversi libri di divulgazione che per primo ha saputo dimostrare in un denso articolo di due paginette intitolato “Collasso gravitazionale e singolarità spazio-temporali”, del 1965, dieci anni dopo la morte di Einstein, che le equazioni della teoria della relatività implicavano l’esistenza di zone dell’universo chiamate “singolarità” dove una grande quantità di materia è concentrata in uno spazio molto piccolo – in maniera tanto compatta che la forza di gravità generata non permette a nulla di uscire, nemmeno alla luce che, sempre secondo la teoria della relatività, viaggia alla velocità massima permessa nell’universo. È da questo che deriva l’evocativo nome di “buco nero”: è un “buco”, nel senso che rompe la superficie quadrimensionale dello spazio-tempo dove sono collocati tutti gli oggetti dell’universo; è “nero” perché dato che neppure la luce può scappare via, è tecnicamente invisibile.

Ma sono state scienziate e scienziati come Ghez e Genzel, a cui va l’altra metà del premio, che hanno fatto la scoperta più sorprendente: al centro della nostra galassia è nascosto un gigantesco buco nero. Si tratta di circa 4 milioni di masse solari concentrate in uno spazio grande come il nostro sistema solare. Dall’inizio degli anni Novanta, utilizzando le tecniche più pioniere soprattutto al telescopio Keck a Mauna Kea, alle Hawaii (abbiamo parlato qui della polemica con gli indigeni), e ai telescopi dell’ESO a La Silla in Cile, questi astronomi hanno osservato per centinaia e centinaia di notti il moto bizzarro della stella S2 che orbita proprio attorno al centro di questo buco nero, generando effetti sul suo moto e sulla sua luce perfettamente in linea con le previsioni della relatività e di Penrose.

Esistono due classi di buchi neri nell’universo: quelli “piccoli”, formati dall’esplosione di in supernove delle stelle più massicce, e quelli come quello al centro della Via Lattea, e che occupano il centro anche di moltissime altre galassie, che hanno masse di centinaia di migliaia, milioni o addirittura miliardi di masse solari. L’anno scorso era stata addirittura scattata la prima foto di uno di questi oggetti, al centro della galassia M87. Poche settimane fa abbiamo scritto dell’esplosione di un buco nero formato probabilmente dalla collisione di due buchi neri più grandi, osservato da tre rivelatori di onde gravitazionali e che mette in crisi i modelli su questi esotici oggetti astronomici.

Andrea Ghez, che nel 2013 ha ispirato la giornalista Ann Finkbeiner a scrivere un suo bel profilo per Nature sforzandosi di non usare i cliché che si usano per parlare di donne scienziate, riscatta la memoria di decine di astronome dimenticate dai Nobel, come Jocelyn Bell (scopritrice della prima pulsar), Sandra Faber (esperta di evoluzione delle galassie), Vera Rubin (prima osservatrice della materia oscura), o Henrietta Swan Leavit (scopritrice delle stelle Cefeidi). Nel 2006 scrisse profeticamente un libro per bambine: Puoi essere un’astronoma. Ora può aggiungere: e vincere un Nobel.