Filtrano ormai quotidiane le immagini del gulag americano che va prendendo forma ai margini di questa seconda estate trumpista, sul confine meridionale degli Stati uniti. Dal mese scorso immigrati e richiedenti asilo, già vittime di abusi e soprusi da parte di contrabbandieri, banditi e autorità, subiscono una nuova efferata crudeltà che sta incarnando più di ogni precedente il volto bieco del trumpismo: la «rimozione» permanente dei figli.

Da un Cie dello stato di Washington avvocati dei diritti civili riferiscono di aver parlato con alcune assistite mentre dai locali attigui si potevano sentire le urla e i pianti sconsolati dei bambini (alcuni fra i 2 e 5 anni di età) a loro sottratti e in via di «collocamento». Solo dal 19 aprile a metà maggio quasi 2000 bambini piccoli hanno subito questa sorte d’accordo con la nuova strategia della «dissuasione».

IN TEXAS UN PADRE honduregno si è tolto la vita un giorno dopo che il figlio di 5 anni gli era stato strappato piangente dalle braccia. Nello stesso stato, a Brownsville, un agente della guardia di frontiera ha dato le dimissioni dopo che gli era stato proibito di consolare tre fratellini in lacrime che non avevano più notizie della mamma, in osservanza al «divieto di abbraccio» che vige per il personale nei lager per bambini. Per sottrarre loro i figli, gli agenti di solito assicurano ai genitori che i piccoli devono «farsi una doccia», accompagnandoli in un’altra stanza: è l’ultima immagine che padri e madri, poi rinchiusi in appositi centri per adulti, conservano dei figli.

Più di tanti precedenti aberrazioni trumpiste, la questione degli stolen children – i bambini rubati che evocano un catalogo di biechi analoghi soprusi eugenetici subiti da Indiani, Aborigeni, Irlandesi e tante altre popolazioni etnicamente o socialmente subalterne, hanno destato uno scalpore trasversale. Contro l’abuso militarizzato di minori si sono espressi parlamentari, intellettuali e religiosi; un’indignazione bipartisan che ha visto perfino l’ex first lady repubblicana Laura Bush stilare un corsivo senza sconti («politica crudele e immorale»). Anche l’attuale first lady Melania Trump si è detta «contrariata».

A FRONTE DELLE CRITICHE Trump ha dapprima negato l’evidenza (una linea sposata ancora questa settimana dalla sua direttrice della sicurezza nazionale Kirstjen Nielsen) e poi addossato la colpa alle «leggi ereditate dai democratici», implicando allo stesso tempo un possibile «scambio di prigionieri»: i bambini potrebbero essere ricongiunti se il congresso passasse una riforma che abrogasse in futuro l’immigrazione per ricongiungimento, la lotteria dei visti e finanziasse la famigerata muraglia di confine. Una «offerta» recepita da molti come la richiesta di riscatto di un rapitore.

Due disegni di legge repubblicani sono effettivamente all’esame del congresso ma nessuno dei due si riferisce esplicitamente al trattamento dei bambini detenuti.

Per il momento vige dunque il rapimento e la reclusione istituzionalizzata dei minorenni secondo le direttive esplicite del capo di gabinetto John Kelly e del ministro di giustizia di Trump, Jeff Sessions. Quest’ultimo, «razzista galantuomo» dell’Alabama vecchio stampo, ha invocato una giustificazione biblica (non Erode, apparentemente, ma San Paolo) dell’autorità di governo come incarnazione della volontà divina. La mefitica portavoce Sarah Huckabee Sanders gli ha fatto da sponda sostenendo che è la Bibbia a chiedere il rispetto delle leggi.

La protesta dei residenti (foto Ap)

DI FATTO CON OGNI INVOCAZIONE della legge da seguire e degli ordini da eseguire, diventano più leciti (proprio come attorno al Mediterraneo) paralleli storici sinistri. A completare il cortocircuito è circolata la foto del maxi ritratto del presidente-miliardario che campeggia severo sul muro del centro di detenzione Casa Padre (un ex Wal Mart con celle di reticolato) in Texas, e che intima mussolinianamente ai bambini-detenuto: «Per vincere una guerra a volte è necessario perdere un battaglia» (op.cit. Art of the Deal di Donald Trump).

È chiaro quindi ora perché fra i primi solidali coi bannati del muslim ban ci furono i nippo-americani della California – memori della schedatura (o «censimento» come si dice oggi) dei loro padri e nonni rinchiusi negli anni ’40 in campi di prigionia come potenziali agenti nemici per la durata della guerra. Quell’episodio poi entrato nei libri di educazione civica come imperituro monito di American Fascism, oggi ha trovato una replica nitida – anche se in quei campi allora non si giunse a separare i poppanti dalle madri.

LA «GUERRA GIUSTA» AI BAMBINI dà la misura completa di una America ritorta su se stessa per effetto della velenosa inoculazione di trumpismo, delle conseguenze reali di quella politica della crudeltà usata per amalgamare i rancori su cui si fondano i regimi xenofobi e identitari. Dopo aver aizzato sin dalle prime battute della campagna elettorale i forconi contro buonismi e «correttezze politiche», verso la catarsi «brutalista» dei respingimenti e degli internamenti, si è giunti all’aberrazione per cui risulterà ora difficile richiudere il vaso di Pandora.

Intanto l’odio fomentato e «autorizzato» dilaga in una una serie sempre più fitta episodi in cui «stranieri» vengono abbordati, insultati e minacciati per strada, nei negozi e negli uffici, microeruzioni quotidiane di un razzismo aperto e fieramente impugnato.

Si esplicitano così i contorni completi dell’imperante neofascismo americano, del suo attacco paradigmatico ai più inermi per definizione. E si rivela il «nocciolo eugenetico» del trumpismo, il suo movente profondo legato all’insicurezza razziale dei bianchi in declino demografico e la strategia dichiarata, come ha fatto Trump, di contenere «questa valanga di gente che passa il confine viene a votare per i democratici!».

CHIUSURA DELLE FRONTIERE dunque, muro di confine – e muri anche attorno ai seggi elettorali per sbarrare la strada alle minoranze. Il primo capitolo era stato l’annullamento dell’amnistia (Daca) al milione circa di studenti e laureandi non cittadini – simbolo dell’integrazione «migliore» e dunque minaccia vieppiù imminente per l’establishment bianco e maschile (segmento 71-29% pro- Trump secondo gli ultimi sondaggi).

Come in Europa la partita si gioca sull’interdizione dei flussi migratori sotto falso pretesto della lotta al globalismo. Ma mentre il sottotesto europeo è la rimozione del colonialismo, in America sfruttamento, schiavitù e capitalismo imperialista sono stati introiettati nell’immigrazione storica che ha composto il corpo sociale. In questa società il progresso è proceduto di pari passo con l’emancipazione e l’integrazione delle minoranze etniche e sociali.

IL TRUMPISMO SI PREFIGGE dunque di invertire un intrinseco processo storico. Dallo scontro che oggi passa per i corpi indifesi dei bambini centroamericani dipende nientemeno che la fondamentale concezione della nazione. Mentre proprio dalla sua componente multietnica potrebbe venire l’opposizione più efficace.