Nella fretta di avviare la “fase 2”, solo la scuola è rimasta esclusa dalla riapertura. In Francia, paese simile al nostro per caratteristiche sociali e per diffusione del virus, si è scelto invece di riaprirla per gradi, partendo dalla scuola primaria e dell’infanzia. Da noi questa possibilità non è stata presa in considerazione. Non è stata una decisione dei tecnici ma del governo, che non si è posto il problema di riaprire nemmeno i primi cicli scolastici, spiega il matematico Stefano Merler al manifesto.

Alla Fondazione Bruno Kessler, Merler dirige l’unità che studia la diffusione delle malattie infettive e durante il lockdown ha fornito al governo le analisi dei dati (il famoso R0) e gli scenari possibili per la fase 2. «Quella domanda a noi non è stata proprio posta, quindi abbiamo considerato solo l’ipotesi di aprire o tenere chiusa tutta la scuola», racconta il ricercatore. «Non abbiamo avuto l’istruzione di verificare cosa sarebbe successo aprendo solo alcuni livelli, anche se i dati permettono di differenziare il livello di suscettibilità nelle varie fasce d’età».

In Francia sono state fatte scelte diverse. Uno studio del gruppo di ricerca di Vittoria Colizza, che fornisce modelli e previsioni per il governo francese e con cui lei ha collaborato spesso, ha approvato la scelta di aprire la scuola primaria e dell’infanzia. Si sarebbe potuto fare la stessa cosa anche in Italia?

Effettivamente Francia e Italia rappresentano situazioni molto simili. Magari la differenza principale è il livello di contatti sociali che hanno i bambini: da noi i nonni sono spesso a contatto con i bambini e bisogna tenerne conto. Ma a noi è stato chiesto esplicitamente di concentrarci sul mondo economico: la priorità era quella. Forse era possibile decidere di anticipare la riapertura di scuole primarie e dell’infazia. Sono convinto che i bambini non siano i principali canali di trasmissione dell’epidemia: sono meno suscettibili, hanno sintomi moderati, probabilmente trasmettono il virus meno dei sintomatici. Il problema è che riaprendo le scuole si riduce il margine di manovra per gli altri settori economici. Il famoso indice R0 dipende da tante componenti. Se ci si pone l’obiettivo di rimanere sotto il valore 1 servono scelte politiche, non scientifiche.

Ci sono stati problemi con i dati forniti dalle regioni?

In un mondo ideale i dati arrivano tutti in tempo reale. Ma non succede da nessuna parte. Certo, c’è chi fa meglio di noi e bisogna imparare da loro. Ma i calcoli si riescono a fare anche nella situazione italiana. Le stime di Rt (che non si basano sui modelli, ma solo sui dati) sono affidabili anche se i dati riportati dalle regioni sono parziali. Però, chi ha deciso le aperture del 18 maggio sicuramente non ha potuto farlo sulla base di Rt, che soffre necessariamente di un ritardo di 15 giorni. Anche i tamponi dati in tempo reale si riferiscono a infezioni che in realtà risalgono a due settimane prima. È un limite oggettivo. È un ritardo che potrebbe essere abbreviato, ma serve un sistema più collaudato. Alla fine, i paesi che hanno fatto meglio sono stati quelli che hanno avuto a che fare spesso con epidemie come la Sars.

Come ha funzionato il rapporto tra esperti e politica?

Covid-19 è in Italia da tre mesi. E in tre mesi si sono prese un numero di decisioni che si prendono forse in trent’anni, e sulla base di informazioni scarse: abbiamo tanto da imparare su questo virus. La politica avrà anche fatto errori, ma ho l’impressione che complessivamente non si sia lavorato male. È pur sempre la più grave crisi sanitaria che ci ricordiamo tutti. Secondo me è stato fatto un lavoro decente per limitare l’impatto.

Quindi non ci sono state frizioni tra scienziati e politica?

Si è instaurato il giusto rapporto tra scienza e politica: lo scienziato deve dire tutto quello che sa e niente di più; il politico ha il diritto e il dovere di prendere qualche rischio in più e può decidere diversamente.