Tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, l’America è riparo estremo per gli immigrati del vecchio continente. Mentre l’Europa è sconvolta, e gli ebrei percorrono strade strettissime tra la sopravvivenza e il suo contrario, il nuovo mondo richiama a sé profughi e scampati, soprattutto dai ghetti orientali. Tra loro, Hertz Minsker, apolide, figlio di un maestro delle Scritture, nato in Russia e transitato per le più sfavillanti capitali d’Europa. Una figlia a Varsavia, un figlio ad Avignone, Hertz arriva a New York nel 1940. Porta con sé la sua personalità inarginabile, un continuo trasgredire di soglie, e travasi ininterrotti di umori, passioni, cultura, dilettantesimo. Una colata di pulsioni sotterranee attraversa la vita e i vagabondaggi mistico-erotici di questa figura itinerante tra il cielo e gli inferi.

Minsker è il protagonista di Der Sharlatan, la storia yiddish che Isaac Bashevis Singer, sotto pseudonimo, fece uscire a puntate sul «Forverts», celebre foglio ebraico-newyorchese di taglio socialista. Dopo la pubblicazione a fascicoli, tra il 1967 e il 1968, qualcuno – non si sa chi ma certamente sottoposto all’occhio vigile dell’autore, che sorvegliava sempre la versione inglese dei suoi scritti – ne approntò la traduzione inglese, che rimase allo stadio di dattiloscritto, custodito in Texas.

Per la prima volta, a partire dagli scartafacci battuti a macchina, la storia è ora edita in volume nella splendida traduzione italiana di Elena Loewenthal, che – seguendo la pratica avallata dallo stesso autore – lavora sul testo inglese, nel ricorso costante all’originale yiddish per appianare difformità e risolvere incongruenze: Il ciarlatano (a cura di Elisabetta Zevi, Adelphi, pp. 268, € 20.00).

Sacerdote dell’edonismo
A due anni da Keyla la Rossa, il lettore italiano riceve un altro inedito, attinto all’ampio corpus di storie singeriane non ancora pubblicate: di nuovo, una operazione riuscitissima, che fa conoscere un racconto, da Singer forse reputato minore rispetto ai suoi grandi libri, di taglio più popolare, con una intonazione leggera. Sebbene l’apparenza sia quella di un romanzo meno universale rispetto ai più noti, è vero il contrario: dietro la levità di registro e la fluidità del narrato, oltre l’ingresso massiccio di elementi del preternaturale e del demoniaco che Singer volentieri frequenta – evocazioni spiritiche, fenomeni dell’occulto, mesmerismi, telepatie, scritture automatiche e tutto il côté esoterico che ne affolla le pagine – Il ciarlatano è una storia abissale. A partire proprio dal protagonista, cui il titolo si ispira, un uomo dal pensiero fulmineo, incapace di durata e solidità, continuamente preda di sé, da quarant’anni alle prese con un libro destinato a stupire il mondo e che però mai oltrepassa il primo capitolo.

Estremamente colto, in testa intere sezioni del Talmud pronte ad affluire alla bocca, centinaia di versi di poesia profana, coroncine di nomi chassidici da sgranare all’occorrenza, Hertz Minsker è la somma aritmetica, con bilancio a perdere, del cabalista, del filosofo e del gabbamondo. Un sacerdote dell’edonismo che non sa resistere al piacere fisico e alla seduzione del nuovo, nobilitando le sue coazioni con massime eterne, saggezze varie, dotte citazioni dalle scritture di mezzo mondo.

Uomo dalle molte letture, capace di intendere diverse lingue, di possederne nessuna, saldamente ancorato allo yiddish, in corrispondenza con Freud e in rapporto con Bergson, Adler, Buber, Hertz Minsker vive a New York, ma abita stabilmente le proprie viscere mentali. È sempre diretto, e insieme sabotato da forze interiori, incalzato da scene primarie, da tracce remote che ne solcano la psiche, mentre l’esterno – gli alberghi, gli orari dei tram, le linee della metro, l’incrocio formicolante delle vie – gli sfugge del tutto. Orientarsi è fuori dalla sua portata, sbagliare strada una abitudine.

Suo primo motore è l’eros, un appetito mai sazio, incurante di promesse e legami, sempre emergente a sospingere verso sfaldamenti e nuove configurazioni. A questo flusso desiderante Minsker piega ogni cosa: il principio di realtà, la filosofia, l’ebraismo, la psicologia del profondo, persino Dio. A puntello dei suoi fuoristrada passionali, il protagonista traccia le linee di un panteismo erotico, dove concorrono Kabbalah e parapsicologia, ampiezze di luce mistica insieme a folle di demoni e spiritelli, nella continua oscillazione tra la celestialità e l’impostura, lo stupore per il sacro e l’apostasia.

Un dubbio metodico muove il suo pensare e trova conferme in un Dio che non richiede devozioni e incensamenti, indulgendo bonario a quei bisogni umani che non conoscono riposo. Il Dio di Minsker crea il mondo su spinta erotico-artistica e, partecipe di questa pulsione, strizza l’occhio a ogni sviamento, a ogni promiscuità, consapevole che «nel cosmo la monogamia non esiste» e che «le stelle sono poligame». Per consequenzialità logica, anche il robusto monoteismo ebraico vacilla agli occhi di Minsker, lasciando spazio alla possibilità di tanti dèi o almeno a un Dio dinamico e a una nuova filosofia, dove convergono Spinoza, i cabalisti, Platone, Plotino, Kant e il Baal Shem Tov, nella cornice passe-partout di un edonismo senza riserve.

Retto da questa certezza, granitica e cigolante al tempo stesso, pronta all’uso come il più consumato degli alibi, Minsker compie balletti intorno a tutti, e tutti inganna, dall’amico Morris Kalisher – comprimario e controparte soccorrevole, pio ebreo sotto le spoglie dell’uomo d’affari – all’infilata di donne incapaci di resistergli e folli d’amore: Bronia, Minna, Bessie, Miriam…

Sapienziale o prometeico
Potrebbe sembrare un vaudeville, e gli ingredienti ci sono tutti: cieche gelosie, amanti al palo, mariti traditi, spiritismo fake, imbrogli di ogni tipo, finanzieri da abbindolare, sedicenti poetesse senza talento, falsari in fuga. Singer è però narratore universale e anche Il ciarlatano è un esempio di scrittura esperta: insieme all’innegabile elemento umoristico e persino farsesco, che trasporta spesso la vicenda verso la commedia brillante, la storia di Herzl Pinsker – nel suo essere amalgama di sensualità, illusionismi e suggestioni – annoda fili anche con Il Mago di Lublino, di sette anni precedente, ma va oltre sfigurando il sacro in folgoranti istantanee di nuda sofferenza e rese incondizionate alla vanità del tutto. Come quando Pinsker – con accenti tra il sapienziale, il prometeico e il blasfemo, a mezza via tra un Faust di Times Square, uno Shabbetay Zevi dei tempi moderni e un Qohelet della strada – guarda Dio in faccia, riconoscendone l’inermità di fronte alla legge, insieme antica e universale, della forza: «Forse un giorno il Dio ebraico finirà per trionfare, ma per il momento è debole e oppresso.

Siede da qualche parte in un ghetto celeste e porta una stella gialla. Ha un certo numero di discepoli – gli ebrei – ma non è in grado di aiutarli. Ha dato loro la Torah, ma le sue leggi non concordano con quelle degli altri dèi. Lui vuole costruire, loro vogliono distruggere. È un filosofo, un sociologo, un fautore dell’amore, mentre gli altri sono generali, strateghi, negrieri, impegnati in guerre eterne».