L’8 agosto del 1991 la nave mercantile Vlora attraccava al porto di Bari traboccante di albanesi, un popolo stremato e affamato da un regime dittatoriale tra i più spietati che la storia abbia mai visto. Da allora l’immaginario italiano dell’Albania è rimasto inalterato mentre oggi il paese è, a fasi alterne, in pieno boom economico.

Dell’immigrazione forsennata di oltre venti anni fa è rimasto ben poco, quel flusso oggi sta prendendo un moto inverso con albanesi che scelgono di ritornare in patria, oggi via d’uscita alla crisi economica che attanaglia l’Italia. La crescita è stata lenta e non priva di ostacoli, ha lasciato segni che ancora oggi sono evidenti, uno su tutti le violenze domestiche di cui le albanesi sono vittime. Al rapido cambiamento della società non è conseguito un miglioramento dei valori sociali, al contrario ha portato al peggioramento di alcune condizioni che prima non esistevano affatto. Ani Ruci, pioniera del movimento dei diritti delle donne in Albania e presidentessa di Reflexione, un’associazione istituita negli anni ‘90 per aiutare le donne ad affrontare la repentina trasformazione della società, spiega perché: “Le severe punizioni che applicava il regime comunista impedivano gli abusi in casa. Con la caduta del regime gli uomini hanno preso a maltrattare le proprie compagne”. A volte si parla di vera e propria emergenza. Continua la Roci: “Grazie a Reflexione, Counselling Line e Women Shelter lo Stato nel 2007 ha approvato una legge che prevede pene detentive che vanno dai 3 ai 5 anni per gli esecutori delle violenze. La legge inoltre istituisce una struttura che prevede l’intervento di diversi attori per assistere le vittime: le Asl e il Ministero della Sanità, i sindaci, la polizia e le associzioni locali come noi. La coazione di tali soggetti cerca di prevenire le situazioni a rischio. Il numero di casi in cui abbiamo successo sono aumentati, ma purtroppo sono vistosamente aumentati anche le violenze domestiche”.

Le associazioni e le donne si sono mobilitate per far fronte a quest’escalation che le vede tristemente coinvolte. Iris Luarasi è la presidentessa di Counselling Line che lavora direttamente sul campo per dare supporto psicologico e finanziario alle vittime, cercando di reintegrarle nel contesto sociale. “Uno dei problemi fondamentali delle donne che subiscono le violenze è la dipendenza psicologica e finanziaria nei confronti del partner che le rende non autosufficienti. Con l’aiuto dello Stato proviamo a fornire un’occupazione giustamente retribuita per cercare di emanciparsi dal marito. Tuttavia non sempre ci sono le risorse sufficienti e così le vittime sono costrette a tornare dai propri partner-aguzzini”.
Nel lungo processo molto è stato fatto: sono stati impartiti corsi di addestramento ai poliziotti per saper accogliere le vittime nel modo meno traumatico possibile; è stato creato a Tirana un rifugio per le donne che subiscono violenze e per i loro figli; sono state lanciate campagne pubblicitarie di sensibilizzazione, tuttavia il problema è più profondo … ma la strada è ancora molto lunga. “C’è una differenza tra i centri urbani e quelli rurali, nei primi la gente è più preparata a capire e ricevere notizie sulle violenze, mentre nei secondi è spesso la notizia della violenza recepita ancora come un tabù. Generalmente il dibattito è accettato dall’opinione pubblica, anche se soprattutto gli uomini tendono a negare le violenze domestiche”, aggiunge la Laurasi. Dal 2013 Counselling Line ha aperto un programma di terapia per gli uomini violenti, ma non sempre i risultati sono soddisfacenti. “Abbiamo avuto molti risultati positivi con le vittime degli abusi, però dal lato maschile la situazione è abbastanza complicata. Solo due uomini sono venuti spontaneamente, gli altri sono obbligati dal giudice”, afferma tristemente la Laurasi.

Il problema assume dimensioni nazionali. A Scutari, nel nord del paese, la situazione è ancora più disperata perché molte donne maltrattate vengono dai villaggi nell’entroterra, da paesi che rimangono completamente isolati durante il lungo inverno balcanico. Così le vittime sono costrette a sottostare alle rigidi regole della comunità che prevedono il silenzio piuttosto che denunciare l’aggressore. Alketa Leskaj, presidentessa del Centro Donne di Scutari, descrive l’operato del centro: “Proponiamo i diritti delle donne rafforzando i rapporti all’interno del tessuto sociale attraverso lo sviluppo di attività che stimolino l’imprenditoria femminile. Abbiamo aperto panetterie e fast food gestite direttamente da donne che sono uscite dal vortice della violenza, incoraggiato l’artigianato tessile con il progetto Mark Lulaj che tuttora impiega 15 operaie nella produzione di tappeti fatti a mano, sponsorizzato la raccolta differenziata in città al fine di permettere il riciclaggio e soprattutto il ri-uso di materiali per fare lampade, tavolini e gadget per l’arredo”, afferma Alketa mentre sorseggia il caffè nel bar A&Z nel centro di Scutari, aperto e gestito dalle donne del Centro. Insieme all’altra associazione Women for Women, Alketa è riuscita ad aprire un luogo di accoglienza per le donne maltrattate con un supporto psicologico e legale.

Lindita Luxhaj è stata sposata 9 anni, è bionda, porta i capelli a caschetto, ride spesso e sembra prendere la sua storia con leggerezza, ma è solo un modo per rompere il ghiaccio. “Il mio corpo era sempre pieno di lividi per giorni e giorni”, il suo sguardo si fa più duro. “Ho due figlie di 9 e 10 anni, ma non gli ho mai permesso di mettergli le mani addosso! Il mio ex non voleva che andassero a scuola, così le accompagnavo di nascosto. Sono rimasta tutto questo tempo con lui perché pensavo all’opinione della gente che purtroppo in Albania non ti lascia essere libera”, Luxhaj prende una pausa, il suo sguardo si riempie di dolore e a malapena trattiene le lacrime. “Era un egoista che pensava semplicemente a sé, era arrivato a un tale punto di gelosia che mi picchiava per un’inezia. Volevo lasciarlo ma non sapevo come, non avevo di che vivere. Non ce la facevo più a subire, ero arrivata al limite. All’inizio mi ha aiutato la mia famiglia, poi mi sono rivolta al Centro Donne e ho confessato quello che mi accadeva all’operatrice-terapeuta, se non lo avessi fatto non ce l’avrei fatta ad andare avanti”. Il supporto economico è stato fondamentale per Luxhaj, come il quello psicologico per lei e le sue bambine. “Dopo il divorzio ho ricominciato a vivere. Ho iniziato prima a lavorare in una fabbrica di scarpe, dopo ho preso un mutuo con il quale ho comprato casa e ho aperto un negozio di alimentari nella periferia di Scutari. La mia vita è cambiata completamente, è ricominciata da zero, finalmente respiro di nuovo e mi sento libera”, continua Luxhaj. Ammette che non pensa di ricrearsi una nuova vita con un nuovo partner (“per me gli uomini sono tutti morti”), ora è concentrata solo alle proprie figlie, vuole dare loro un futuro diverso facendole studiare. Lindita Luxhaj mostra orgogliosamente la patente che è riuscita a conseguire. “Avere una macchina mi permette più libertà, posso andare dove voglio in qualsiasi momento”.

Ermira Tomorri ha il viso di un’attrice, una bellezza che sembra essere un miscuglio di lineamenti mediterranei e sudamericani. I capelli sono di un corvino intendo e gli occhi penetranti. Il suo matrimonio è durato 18 anni. “Il mio ex marito non ha mai lavorato, si giocava tutti i soldi a poker. Subivo violenza psicologica fino a quando non ce l’ho fatta più, ora anche se mangio solo pane sono molto più tranquilla. Il mio ex mi insultava, era continuamente volgare e non mi lasciava uscire, ero internata in casa e lavorare era un’eresia. Eravamo pieni di debiti ed era difficile vivere con lui”, Ermira prende una pausa e un sorso del caffè che si è raffreddato sul tavolo. “Ho tre figli, la più grande ha 16 anni, la seconda 14 e il maschio 10 anni, per fortuna vanno tutti a scuola. Le mie figlie sono cresciute con la violenza e hanno capito che è la cosa peggiore al mondo, con il più piccolo parlo tutte le volte che ho la possibilità cercando di fargli capire cosa significa la violenza ed evitare che faccia come il padre”. Emira abbassa gli occhi, sa che il cammino è solo l’inizio di una fase che durerà anni, ma non si perde d’animo. “Grazie al Centro Donne sono riuscita a divorziare ricevendo l’assistenza legale gratuita, ma è anche un rifugio per tutte le donne della regione per essere accolte e capite”. Ora Ermira lavora in un bar, a malapena riesce a sbarcare il lunario, guadagna circa €150 al mese con i quali deve pagare l’affitto e dar da mangiare ai propri figli. “Ci vivo, ma in Albania la vita è troppo difficile, specialmente per le donne”.

Xhixha, fuoco in dialetto albanese, non vuole dare le proprie generalità, preferisce il soprannome con la quale viene chiamata. “Da quando ho divorziato mi sento rinata e completamente libera. Abito in una casa in affitto. Il giudice mi ha dato due volte l’ordine di protezione perché la situazione con la famiglia del mio ex marito è complicata. Economicamente non sono messa bene, ma ho preso un ulteriore mutuo per aprire un bar dove lavoro con i miei figli. Le condizioni sono difficilissime, ma almeno i tre maschi hanno un’occupazione, mentre la più grande è già sposata. Sto cercando in tutti i modi di farli studiare, anch’io sto portando avanti gli studi all’università di giurisprudenza, per me è come un anti-stress”. Xhixha è un vulcano: “Voglio conoscere le leggi perché ho cercato giustizia per me stessa tutta la vita e adesso posso darla anche alle altre persone che hanno vissuto la mia triste esperienza. Alzo la mia voce anche per aiutare tutte quelle donne che vogliono divorziare e che nella regione di Scurati per questo vengono disprezzate. Ma non parlo mai male degli uomini o del mio ex, perché i miei figli lo devono sempre amare, così evitiamo di avere altri conflitti”.

Xhixha non parla volentieri della relazione che aveva con il suo ex marito, 25 anni di matrimonio sono stati un’eternità. “Purtroppo mi sento ancora vittima perché continuo a subire le minacce da parte del mio ex marito, ma cerco di dare sempre il coraggio ai miei figli di andare avanti con il bar e non demordere, per non lasciarli in strada”. I figli sono l’altro lato della medaglia, le vittime nascoste che subiscono quasi sempre in silenzio e nella penombra delle percosse. “I miei figli hanno capito i motivi della separazione, ma avevano paura per quello che avrebbe pensato la gente. Ci troviamo nel nord dell’Albania, il maschilismo è molto forte. Anche se vivono con me continuano ad avere una buona relazione con il padre, il piccolo resta tutto il tempo con lui, ma anche i più grandi lo vanno a trovare abbastanza di frequente, per non farlo sentire male per le chiacchiere che si fanno in giro. Sembrerà strano, ma attraverso i figli cerco di aiutarlo”. Vittima e carnefice sono entrambi l’anello debole di uno Stato che non è in grado di affrontare un’emergenza che nel 2013 ha causato 27 morti in Albania.

Lindita Luxhaj, Ermira Tomorri, Xhixha dal bar del Centro Donne prendono le biciclette per andare ognuna al proprio lavoro, forse tenendo a mente uno slogan tanto caro ad Ani Ruci: I am beyond you (io sono oltre te). Perché la violenza è la negazione di ogni atto che si può esercitare quotidianamente esternando della propria individualità, come quello banale di prendere una bici per andare incontro alla propria libertà.