Le foglie cadute a terra e quelle sui rami, una bandiera che sventola, i manifesti elettorali e i poster delle mostre, qualche panno stesso nelle calli… comparse dal ruolo secondario nelle visioni architettoniche dei sei sestieri di Venezia. Una città solo apparentemente immobile, in cui il vuoto ha come un peso specifico, una densità, un carattere tutto suo, è quella che affiora dal fluire delle migliaia di immagini fotografiche (rigorosamente in bianco e nero) che Mario Peliti (Roma 1958, vive e lavora tra Roma e Venezia) dedica dal 2006 al Venice Urban Photo Project. Un’ampia selezione di questa campagna fotografica in progress fa parte della mostra HyperVenezia curata da Matthieu Humery a Palazzo Grassi di Venezia (fino al 9 gennaio 2022 / catalogo Marsilio Editori), nell’ambito delle celebrazioni dei 1600 anni della fondazione della Serenissima.

È proprio il conservatore della Collezione Pinault a parlare di «archivio vivente» proponendo un percorso lineare di circa 400 fotografie che svelano una città in parte imprevedibile, a cui si aggiungono oltre 3mila immagini che si alternano sui tre grandi schermi dell’installazione video, mentre altre 900 compongono i tasselli della mappa che ricorda la Venezia-pesce di Tiziano Scarpa. Il tutto accompagnato dalla musica Esterno/Strada/Giorno realizzata appositamente dal compositore-architetto Nicolas Godin, membro con Jean-Benoît Duncke del duo di musica elettronica AIR.

Peliti nutre una passione per la fotografia che l’ha portato a fondare nel 1986 la casa editrice Peliti Associati e dirigere (dal ’95 al 2002) la Galleria Minima – uno dei primi spazi espositivi della capitale dedicati all’arte fotografica, dove sono state presentate le opere di grandi maestri tra cui Sebastião Salgado, Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico, Mario Giacomelli, Mary Ellen Mark, Bert Stern – ha un’attitudine e una metodologia da fotografo d’altri tempi, corroborata da un’impeccabile aplomb che riflette il suo umorismo dalle nuances «grigio Londra».

A proposito di incontri, prima ancora che con il curatore Matthieu Humery c’è stato quello con i dirigenti dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione e della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per l’area metropolitana di Venezia con cui nel 2018 hai firmato un accordo per la creazione del fondo digitale Venice Urban Photo Archive.
Gli incontri con Laura Moro e poi con Emanuela Carpani sono stati veramente fondamentali e in qualche modo hanno garantito sulla serietà del progetto. Non so quanti precedenti ci siano di questo tipo ma è quello che un tempo si sarebbe chiamato accordo win-win. Io cedo allo Stato Italiano, che conserverà l’archivio digitale e al tempo stesso mi ha aiutato nella realizzazione delle immagini, i diritti di riproduzione. Senza la collaborazione con l’ICCD e la Soprintendenza non avrei potuto realizzare almeno un terzo delle foto, perché non avrei avuto la credibilità per farle.

Dal 2006 ad oggi hai scattato oltre 12mila le fotografie: la conclusione della ricognizione fotografica è prevista per il 2030…
Se sarò vivo, certo! (ride) Per l’esattezza 12mila sono solo le fotografie digitali, su pellicola ce ne sono altre 8mila. La necessità di fotografare nasce dal fatto che più si fotografa e più ci si rende conto di quanto ancora ci sia da fotografare. Ma credo che questo valga per qualsiasi persona che affronti seriamente una ricerca. La gran parte delle foto che mi piacerebbe fare richiede permessi e i permessi richiedono tanto tempo, basti pensare solo a tutte le aree di Venezia di competenza del Ministero della Giustizia o di tutti i patronati. Ogni volta è necessaria una pratica e talvolta anche più pratiche per fotografare uno stesso luogo.

Ti è capitato di tornare a fotografare lo stesso luogo?
Certo! A distanza di anni tante volte. Mi capita anche di dimenticarmi delle foto che faccio e anni dopo di farle esattamente uguali. Naturalmente senza rendermene conto se non quando le riguardo. Evidentemente c’è una discreta sintonia tra la mia macchina fotografica e il mio occhio, per questo mi metto sempre nello stesso posto.

In una conversazione che abbiamo avuto nel 2016, parlando del progetto lo avevi definito «un lavoro meticoloso che mette insieme 3 etti di Basilico, 2 etti dei Becher, 4 etti di Araki. Poi ci mettiamo un po’ di Samallahti con una grande reverenza anche nei confronti di Marville»…
Nell’ordine cambiano… perché Charles Marville pesa più degli altri!

Alla base della tua passione/ossessione c’è una conoscenza approfondita della fotografia anche attraverso l’esperienza di editore e gallerista…
Filiberto Menna, di cui seguivo il corso di storia dell’arte alla facoltà di Architettura, diceva che non guardiamo con i nostri occhi ma attraverso tutto ciò che conosciamo. Sarebbe impensabile e presuntuoso dire che ho inventato un certo tipo di fotografia. Ho semplicemente applicato dei modelli, ma credo che ci sia anche qualcosa di mio. Lo spero (sorride)… Però se per i primi otto anni ho cercato di fotografare la luce perfetta, poi ho capito che la luce perfetta non è quella che ha l’ombra perfetta ma quella che non ce l’ha affatto. Sono stato diffidente nei confronti dei Becher finché non ho visto le luci di Samallahti che sono altrettanto morbide ma meno fredde. Anche per le tonalità la fotografia di questo autore m’ispira molto e certamente l’aver lavorato con lui mi ha consentito di capirla meglio. Nella gestione di questo progetto, poi, credo che siano stati utili anche tutti gli anni in cui ho lavorato per le aziende occupandomi di comunicazione. Infatti ho redatto un piano, mi sono dato dei tempi e delle modalità, cose che ho imparato attraverso un mestiere che non era quello del fotografo. È un progetto che se vogliamo è ambizioso e presuntuoso, ma segue un protocollo: devo fotografare minimo 60 giorni l’anno. Il protocollo prevede anche che, ad esempio, se c’è una persona alla finestra può essere presente nella fotografia, ma non se è sulla riva. Io le chiamo le regole del gioco. È un grande impegno ma fatto con la leggerezza più totale ed il piacere di farlo. Ogni persona fortunata ha la possibilità di trovare un suo luogo e Venezia – per le sue stratificazioni – è il mio luogo.

A proposito di stratificazioni architettoniche, nel tuo sguardo c’è anche la formulazione implicita di un giudizio estetico, pensando a Le pietre di Venezia di John Ruskin e al suo entusiasmo per il gotico, nonché alla considerazione dello stile rinascimentale come punto di partenza del declino della città?
No, nel mio sguardo c’è proprio la mancanza di giudizio e, se vogliamo, il desiderio di citare fotografie che mi sono anche un po’ meno vicine. Tratto la città con lo stesso rispetto, dalle zone come Sacca Fisola a quelle industriali, fino al centro storico. Personalmente ho una passione che mi porto fin da quando ero ragazzo per l’architettura rinascimentale di Mauro Codussi che tutti considerano un architetto minore. Ma i minori sono anche quelli che fanno le città e senza tutta la mediazione tra l’architettura bizantina e il rinascimento fatta Codussi non ci sarebbe la Venezia rinascimentale.

Nel Venice Urban Photo Project non ci sono persone, ma ogni tanto compaiono cani, gatti, uccelli…
Da qualche parte ci sono pure gli ibis… Nella fotografia dell’Ottocento le persone avevano un ruolo solo di misura. In questo contesto la loro assenza contiene anche un aspetto ideologico che è quello di scongiurare lo spopolamento. Adesso con il lockdown è facile vedere le città vuote, ma nel 2006 quando ho cominciato il progetto sembrava una cosa semplicemente velleitaria. La mancanza di persone, poi, accentua sicuramente la sospensione temporale, mi fa pensare all’inizio del film Il posto delle fragole con l’orologio senza lancette.