Nell’estate del 2021 durante una presentazione del suo libro Celestia, chiesi a Manuele Fior dove ci avrebbe portato con la sua storia successiva: «A Berlino», fu la risposta; non una parola allora su questa abbacinante Valle dei Re che «buca» le prime tavole del suo nuovo libro e sul quel 4 novembre 1922, giorno in cui l’egittologo Howard Carter scoprì la tomba di Tutankhamon. Eppure è intorno a questa storica vicenda che si muove anche la trama berlinese di Hypericon dove troviamo Teresa, una giovane ricercatrice italiana a lavoro nella capitale tedesca per curare un’esposizione di quei tesori inestimabili e misteriosi e con lei Ruben, che le regalerà una bicicletta e le insegnerà a perseguire i suoi obiettivi, senza «mai procedere in linea retta». Grazie a un sogno dell’autore e all’insonnia della protagonista, in Hypericon si intrecciano storie di giovinezza e scoperta, mentre sullo sfondo si dipinge l’affresco del futuro visto dal passato, l’esordio e la conclusione del XX secolo, cristallizzati in due eventi epocali. Tematiche che da sempre attraggono l’autore, presenti anche in questo graphic novel che segna tra l’altro il suo ritorno alla casa editrice Coconino. Ne abbiamo parlato con lui.

«Hypericon» è in un certo senso la tua risposta a una situazione eccezionale, il lockdown che per un po’ di tempo ti ha impedito di andare in studio a disegnare; un fumetto che nasce da una situazione domestica e in primis da un processo di scrittura. Come ha influito questo elemento nello storyboard o comunque nel disegno?
Ho un po’ di sospetti verso lo storyboard, che è però uno strumento semplice e potente, di previsione, che permette di tagliare la storia nei giusti punti e stare insieme al finale fin dall’inizio, cosa che è difficile quando si fa un passo alla volta. Faccio normalmente molto affidamento sul disegno poiché confido che mi porti sempre in un luogo diverso, mentre la scrittura, la sceneggiatura e lo storyboard sono strumenti un po’ più difficili da far deragliare. Un’immagine può prendersi la libertà di andare dove vuole; la scrittura no, ragiona in maniera più logistica, mentre il disegno è più simbolico. Con questo libro ho imparato molto, mi sono auto sabotato e ho cambiato metodo.

La struttura del libro è duplice: da una parte c’è la voce di Howard Carter tratta dal suo diario, dall’altra la voce narrante di Teresa. «Hypericon» è anche una storia sulla potenza della scrittura, ma come si legano qui le due voci?
Probabilmente sulla base dell’esperienza personale. Anch’io sono stato in Egitto, anche se con meno fortuna di Carter; neanche lui si era formato come archeologo, ma era acquarellista e in effetti anch’io mi sono infiltrato negli scavi da disegnatore, un po’ più scientifico. Teresa, e a turno Ruben, sono il mio alter ego. Lei è una ricercatrice, molto preparata: nelle sue notti insonni spesso è accompagnata dalla voce di Carter, che da un lato la guida nell’allestimento della mostra, ma che è anche di grande consolazione. Del resto la scoperta della tomba è quasi una storia alla Spielberg, una vicenda fantastica che di notte assume tratti che sfiorano la magia, brilla ancora di più. Il percorso di Teresa e quello di Carter diventano indissolubili, fino a essere l’una specchio del l’altra, si intersecano, tanto che a un certo punto possiamo percepire la voce di Carter nel presente abitato da Teresa.

Questa tecnica del montaggio alternato giunge al culmine nel momento in cui Carter spolvera il volto del sarcofago del Re e Teresa si addormenta per la prima volta in tutta la storia: il primo riportato alla luce dal sonno eterno, la seconda che scivola nel buio del sonno. La luce e il buio spesso si legano nella nostra lingua al concetto del tempo. Portare alla luce una realtà è come narrare?
Assolutamente sì. Ciò che fanno gli archeologi è dissotterrare cose che non sono state illuminate per molto tempo, un’operazione che somiglia moltissimo alla creazione artistica. Non ho mai l’impressione di inventare qualcosa quando disegno una storia, ma di scavare e pulire qualcosa che ritorna alla luce. Archeologia, sogni e creazione artistica sono procedimenti che non avanzano per causa-effetto ma per immagini che si accostano, come in un puzzle: attacchiamo le tessere non in base a una logica sempre uguale. Talvolta partiamo dalla cornice, altre volte ci basiamo sul colore, o su un dettaglio: narrare è come ricostruire un puzzle.

Anche Ruben porta in sé tratti del giovane Manuele Fior, ma al centro del tuo racconto c’è di nuovo un personaggio femminile. Cosa rappresenta questo personaggio e che possibilità hanno le protagoniste che non vedi o trovi nei caratteri maschili?
Non era una prerogativa per me, ma disegnando le mie storie ho scoperto che i personaggi femminili sono più liberi rispetto a quelli maschili che finiscono che gravitare intorno a me. Credo che ci sia una distanza biologica tra me e una donna-anche se è problematico dirlo adesso- e che il tentativo di colmare questa distanza, mi motivi e mi affascini. Di libro in libro, vorrei esprimere quasi un senso di amicizia per le mie protagoniste, vorrei stringere loro la mano, come gesto a pacificare la tensione implicita al rapporto. Sono lì per un atto di amore: poiché le amo, le disegno.

«Hypericon» è un racconto sul senso misterioso del tempo: non solo è costruito su un salto temporale, ma i riferimenti allo scorrere del tempo e alla sue diversa percezione sono innumerevoli…
Sì è un altro leitmotiv nei miei libri. La frase in exergo di Paul Delvaux, pittore post surrealista, è importante: niente si perde nella vita di un uomo. Mi serviva per riparare l’insopportabile sensazione che le cose si perdano nel tempo e, come le cose, anche le vite: il giovane faraone era un buon esempio per dimostrare che non è sempre così. Il filosofo Emanuele Severino, che ha insegnato a Venezia, ha creato la metafora della bobina di un film; parlando di tempo e coscienza dice che quest’ultima è il proiettore che illumina i fotogrammi della vita uno alla volta, così che quando il fotogramma è illuminato diciamo «presente», ma il fotogramma non scompare, semplicemente viene arrotolato insieme ai precedenti e tutti insieme coesistono, ma non sono svaniti. Gli egiziani avevano una percezione simile: anno dopo anno avremo avuto una visione completa, un affresco composto dal passato che si completava, di nuovo come un puzzle. Le due visioni, quella del filosofo contemporaneo e quella degli egiziani, sono molto simili e antitetiche a quella che abbiamo comunemente, quando pensiamo che ieri è finito, andato e che oggi durerà fino a stasera, etc. Forse non è molto valido il nostro modo di pensare il tempo.

Il libro è anche un tributo alla giovinezza?
Sì, dall’inizio ho voluto raccontasse quella parte della vita in cui si comincia ad essere padroni di noi stessi, si prendono decisioni autonome e si rivedono i piani che altri avevano fatto per noi; a questo è servita Berlino nel mio percorso, a scardinare quanto era stato previsto per la mia vita, a farmi innamorare del fumetto, di una città, di cose e persone nuove. Anche per questo motivo la parte sessuale è piuttosto accentuata nel libro, perché si racconta il momento in cui il sesso è un modo per conoscere l’altro e per conoscere il mondo e sé stessi. Nella loro ingenuità quando Teresa dice Rimarremo senza cellulari, sena documenti… finalmente nudi, intendevo che denudarsi degli orpelli che nel nostro presente dovrebbero garantire la socialità, è un invito a lasciar perdere l’ossessione degli oggetti materiali per riprendersi la parte importante e vera della nostra vita. Anche l’epoca raccontata nel libro è più giovane rispetto a quella attuale: la fine del libro coincide con l’attentato alle Torri Gemelle, una vera pietra miliare nella nostra contemporaneità, un momento di assoluta frattura dell’immaginario artistico e collettivo. Basta ricordare le immagini dell’11/9 per capire come il mondo in quel momento ha cambiato velocità, come in quel momento i problemi sono diventati altri. Quell’immagine è un simbolo e dice tutto sul immaginario al collasso: come l’apertura della tomba 90 anni prima, segna in un certo senso la fine di un’epoca e la fine dell’innocenza.