Si è chiusa da meno di un mese, nelle sale ariose del Musée de l’Orangerie, la rassegna dedicata al profilo critico, al gusto collezionistico e all’attività mercantile di Félix Fénéon, dandy sfuggente e celebrità selvatica sulla scena parigina a cavallo fra Otto e Novecento: araldo delle poetiche post-impressioniste e cantore di un’estetica ‘sperimentale’ ispirata al procedimento cromo-luminarista, avrebbe magnificato, nella lenta incubazione del canone figurativo della modernità, i mandala cangianti del capofila del pointillisme, George Seurat , di cui possedeva fra l’altro il dipinto chiave Une baignade à Asnières; e non a caso l’esposizione, appena conclusasi, si è vista attribuire il sottotitolo eloquente ‘Les temps nouveaux’, una strizzata d’occhio al credo riformatore fieramente professato dalla guida redazionale della «Revue Blanche» – in campo artistico così come in ambito sociale – attraverso una fervente attività giornalistica ma anche grazie al sapiente dosaggio di una non meno incisiva presenza pubblica.
Il suo teleologico commento alla III rassegna della Società degli Artisti Indipendenti, edito il 3 aprile 1887 sotto all’intestazione generica di L’Impressionisme, è invero costellato dal rimando tenace all’idea di una ‘nuova visione’; e nel ricostruire il retaggio che, secondo Fénéon, collega il modello glorioso di Manet all’approdo muscolare e selvaggio delle proposte estreme di Maximilien Luce, il corsivo non si esime dall’inanellare i partigiani venuti in soccorso di una simile fronda.
Fra le menzioni banali di Mallarmé e Théodore Duret, i riferimenti mondani a Paul Adam e Arsène Alexandre, stupisce trovarvi citata la penna velenosa di Joris-Karl Huysmans, il quale appena tre anni prima aveva dato alle stampe il manifesto affranto di À rebours. Quantunque, infatti, il ruolo da questi giocato in veste di settario sostenitore della vague impressionista – o almeno di alcuni dei membri più defilati nel movimento – fosse stato già ribadito dall’apparizione chez Charpentier de L’Art moderne, non si può non notare come lo stesso Fénéon si premurasse di prendere le distanze dalle posizioni espresse in sedi diverse dal collega e ridette proprio in quella raccolta di saggi, offerta al pubblico nel non lontano 1883. Se quindi l’articolo de «L’Emancipation sociale» sottolinea quanto fosse «improprio» includere nella tradizione avviatasi sull’esempio di Olympia i nomi di «Degas, Forain, Raffaëlli», la vis polemica di tale condanna non può che venir ricondotta alle posizioni del collega più anziano, il quale – a partire dalla seconda metà degli anni settanta, in interventi ospitati su testate della fatta di «La Gazette des amateurs de livres» , «L’Artiste» o «Le Voltaire» – si era eletto a promotore dei linguaggi saldi, nervosi, attuali di queste tre personalità.
Alla luce di un tanto esplicito antagonismo (declinato in punta di penna ma non per questo meno militante), è dunque assai opportuno che in una sorta di staffetta ideale, si dia continuità allo scandaglio riservato al museo fénéoniano con una mostra sulla riflessione storico-artistica del creato di Zola, eletto poi patriarca del decadentismo europeo e accodatosi, in ultimo, al gregge dei cattolici oltranzisti durante un interminabile fin-de-siècle, fra Barbey d’Aurevilly e Léon Bloy; evento accolto invece all’Orsay (fino all’1 marzo) e che coinvolgerà, a mo’ di tappa ulteriore, il Musée d’art moderne et contemporain di Strasburgo, in virtù degli sforzi congiunti di Stéphane Guégan, André Guyaux e Estelle Pietrzyk.
Aspettando il vernissage alsaziano – l’inaugurazione sarà ad aprile e il focus verterà sulle passioni ‘naturalistiche’ di Huysmans, dalla mineralogia alle mirabilia botaniche – ci si deve dunque soffermare sulle scelte, decisamente siglate, che hanno indirizzato l’evento lungo le rive della Senna. Per l’allestimento è stata infatti interpellata una firma di conclamato glamour internazionale come quella di Francesco Vezzoli; e l’evocazione dell’artista italiano sarà stata suggerita da una qual certa, goethiana propensione per le ‘affinità elettive’, e cioè da una prospettiva sul contemporaneo che – in maniera seducente – lascia consuonare la dissoluzione del Romanticismo con la fine postmoderna della storia.
Un’opzione siffatta, pur promettente sulla carta in termini di echi e assonanze, ha tuttavia ingenerato una strana frattura in seno al progetto, tra premesse critiche e visualizzazione autoriale del percorso. Al di là infatti di alcuni facili coups de théâtre congegnati da Vezzoli, fra cui la non abbastanza preziosa tartaruga-gioiello o i fuorvianti rinvii al Vittoriale dannunziano sulle pareti della seconda sala, è la stessa idea di una sequenza di spazi espositivi tripartita a offrirsi come parziale tradimento dell’architettura costruita, in parallelo, dai testi affidati al catalogo. Di fronte a un’immagine solo all’apparenza compartimentata connessa alla biografia dello scrittore – il naturalista/l’esteta/l’oblato – Guégan e gli altri rivendicano nei loro saggi l’esigenza di tradurre queste fasi in espressioni di un medesimo ‘carattere’, di un sentire coeso; le pause forzose imposte ai visitatori in museo, pur nella presenza di alcuni atoni enjambements per legare una stanza all’altra (in particolare la terza con quella che la precede), si prestano invece a ribadire una chiave interpretativa in tutto contraria, propensa a giustapporre, sul piano concettuale, gli amori e le passioni del letterato – Degas/Moreau/Grünewald (richiamato perfino in copertina di catalogo dalle Tentazioni di Sant’Antonio) – senza sforzarsi di annodarle a un fil rouge corposo, di chiara evidenza.
Eppure i segnali di una compattezza sicura del gusto huysmaniano, oltre che nelle prove filologiche riunite dai contributi composti per quest’occasione (specchio dell’incessante lavorio bibliografico suscitato dal romanziere), risaltano vivi anche soltanto a riaccostarsi, in veste di lettore, al corpus dei suoi scritti d’arte, fra figure ripetute, tic linguistici e giri di frase ossessivi, utili sempre a costruire immagini di palpabile consistenza. Per limitarsi agli interventi riservati alla ‘trinità’ qui sopra evocata, dal 1876 fino al saggio testamentario del 1904 trasmesso a «Le Mois littéraire et pittoresque», vi si può ad esempio censire il ritorno costante dell’aggettivo ‘barbaro’, riscontrabile con meno agio negli studi consacrati ad altri nomi, non ugualmente cari all’occhio del commentatore. Una «grandeur barbare» emana dal «mystère irritant» di Moreau, già all’incontro col pittore nel 1876, mentre ‘barbara’ e ‘raffinata’ si presenta nel 1881 la Piccola danzatrice di Degas, un nuovo Primitivo, vero e proprio annuncio del disprezzo delle carni poi esplicitato in serie susseguenti, come i nudi al bagno esposti nel 1886 alla Maison Dorée; ma un «barbare de génie» è anche Grünewald, educato a fatica dalle regole rigide di una profonda intuizione teologica.
Tale trimurti risulta dunque venerabile perché al crollo esangue di una civiltà corrotta, afflitta da volgarità mercantili e perdutasi per colpa di raffinatezze a buon mercato (lo scenario finale del ‘parisianisme XIXème’, di cui l’autore in prima persona è figlio desolato, riottoso), essa si rivela in una lingua franta, schietta, spezzata, torbida, apocalittica, finalmente sincera: le preferenze d’Huysmans, allora, si dichiarano per quelle che sono ovvero le intransigenze di un moralista caustico, epigono dissennato della schiatta dei La Rochefoucauld e dei La Bruyère.