Affiorano i versi di Rabindranath Tagore, guardando le opere di Piyali Sadhukhan (1979) Silent TalesBlue o anche Udaan. «Bada che i tuoi bracciali non facciano troppo rumore, e che i tuoi passi non gli corrano incontro», scrive il poeta nella celeberrima raccolta Gitanjali (Il giardiniere). La sposa deve far attenzione a non lasciar tintinnare i numerosi braccialetti di vetro quando, con la lampada in mano, accoglierà in casa l’ospite. Questi monili coloratissimi e fragili (chudi o bangles) non sono semplicemente oggetti ornamentali, incarnano l’essenza stessa della femminilità delle donne indiane. Investiti di un potere apotropaico sono associati alla prosperità e al matrimonio: non c’è sposa, in India, che non abbia i braccialetti ai polsi!

Ma quante storie non dette si celano dietro l’apparenza, per lo più tra le mura domestiche in una società patriarcale. Dare voce a quel mondo sommerso attraverso la trascrizione grafica delle onde sonore, utilizzando le vibrazioni del rosso e dell’azzurro – due colori dalla forte valenza simbolica – è una priorità per Sadhukhan che va ben oltre la ricerca estetica. A dare forza al gesto dell’artista femminista di Calcutta le cui opere sono esposte al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino in occasione di Residues & Resonances, sezione della mostra diffusa Hub India – Classical Radical (fino al 9 gennaio 2022), c’è proprio l’utilizzo di migliaia di braccialetti di vetro rotti e riassemblati sulla tela.

Curato da Myna Mukherjee e Davide Quadrio (fondatori rispettivamente di Engendered, New Delhi e Arthub), il progetto espositivo è stato concepito per Artissima Internazionale d’Arte Contemporanea di Torino e si estende anche alle sedi di Palazzo Madama (Disruptive Confluences) e dell’Accademia Albertina (Multitudes & Assemblages). Punto di partenza è il film Sama: Symbols and gestures in contemporary art practices. Italy and India vol. 1, realizzato con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di New Delhi.

Il documentario raccoglie oltre cinquanta interviste ad artisti e intellettuali del subcontinente indiano e italiani, delineando una mappatura parallela incentrata sul significato di eredità culturale, identità, emigrazione, religione, stile, materia, tradizione, artigianato, globalizzazione. «Un esercizio di ricerca innescato da semplici domande che abbiamo posto agli artisti: come l’arte contemporanea preserva il passato, lo trasforma, lo contiene, lo osteggia?» – spiega Quadrio – «Cosa può dire ancora l’arte contemporanea? Cosa possiamo fare?».

Questa stimolante kermesse guarda al subcontinente senza divisione di confini, India, Pakistan, Bangladesh e regione himalayana, coinvolgendo artisti multidisciplinari (tra loro anche Anindita Bhattacharya, Samanta Batra Mehta, Ravinder Reddy, Bharti Kher, Puneet Kaushik, Chandrashekar Koteshwar, Arpita Akhanda) e numerose gallerie, soprattutto di New Delhi, Calcutta e Mumbai, tra cui la storica Nature Morte di Peter Nagy, Gallery Espace, Akar Prakar, Art alive, Latitude 28, Shrine Empire, Volte, Jahveri Contemporary con la collaborazione di Enami Art, Kiran Nadar Museum of Art, Fondazione Torino Musei e Accademia Albertina.

Denso di spunti critici, il dialogo tra queste opere contemporanee e le antichità dei musei torinesi crea un ulteriore corto circuito visivo, come nella sala di Palazzo Madama con le sue pareti damascate e la profusione d’oro zecchino quando ci si imbatte nella toeletta di Tayeba Begum Lipi (1969), artista del Bangladesh e co-fondatrice di Britto Arts Trust con cui parteciperà a documenta15.

Al di là della patina di apparente leziosità, Once Upon A Time svela un messaggio neanche troppo implicito, con le centinaia di lamette da barba d’acciaio inossidabile che rappresentano non solo un pattern ma la struttura stessa del lavoro. Una tensione che strizza l’occhio alla materia portando l’osservatore a riflettere su questioni di genere, così come nelle sculture di Manjunath Kamath (Mangalore 1972) dove la violenza è percepibile nell’atto stesso di ricucire vecchie cicatrici nella formulazione di una nuova versione degli idoli in cui gli strati di terracotta, ceramica, cemento e acciaio sono come pagine di storia. Analizza l’ambiente rurale l’artista Prasanta Sahu (1968), incentrando su questo tema il progetto Mapping craters (2020-21): un’installazione di 60 calchi negativi in gesso, numerati, che ricordano i reperti archeologici.

In questo archivio (sono presenti anche disegni, acquarelli e fotografie) offerto come cibo su una tavola imbandita, c’è la documentazione di un intero anno che l’artista ha trascorso fianco a fianco con un contadino senza terra nel villaggio di Amdahara Birbhum (Bengala orientale).

Ritroviamo l’impronta degli attrezzi che sembrano arcaici ma vengono usati tuttora, dei cibi, di frutta e verdura, dei cibi, presenze rese visibili attraverso l’assenza. Una metafora del lavoro, del tempo e della fatica di chi coltiva e produce gli alimenti destinati alla collettività, che non compare nello scenario più ampio delle politiche del cibo. Per Prasanta Sahu che vive a Santiniketan (lì dove il poeta Tagore creò, nel 1901, una scuola a contatto con la natura nell’eremo fondato quarant’anni prima da suo padre Devendranath, sostenitore della modernizzazione del Bengala) questo approccio analitico serve a sottolineare il grande contrasto – l’incomunicabilità totale – tra i due mondi, rurale e urbano, della società indiana. Contrasti che investono anche altri aspetti sociali come è evidente negli stendardi ricamati, The plain of Aspiration (rivisitazione delle tangka tibetane) in cui Paula Sengupta (1967) porta la vita di tutti i giorni, così come l’artista pakistano Waseem Ahmed (1976) che con un’ironia sottile affronta nelle sue miniature i conflitti religiosi e politici.

Richiamano alla memoria le antiche miniature anche le fotografie seppiate della serie A Visitor to the Court su cui Waswo X. Waswo (1953) è intervenuto dipingendo elementi decorativi colorati che le rendono pezzi unici. Nell’autoproclamarsi erede della raffinatissima cultura moghul, il fotografo-scrittore (autore di India Poems: The Photographs, 2006) crea delle mise-en-scène in cui gioca sullo stereotipo dell’orientalista, ribaltando così quel rapporto di potere costruito dall’immaginario europeo del mondo «altro» (l’Oriente).