Nato nel 1942, autore di quattordici romanzi accomunati da una riflessione sull’identità ebraica che diventa cifra di lettura del mondo e della società, ma anche saggista raffinato, umorista, e conduttore televisivo, Howard Jacobson è giunto al successo internazionale nel 2010, a quasi settant’anni, quando al suo undicesimo libro, L’enigma di Finkler, è stato assegnato il Man Booker Prize. Ora lo ripropone la Nave di Teseo, nell’ottima traduzione di Milena Zamira Ciccimarra (pp. 479, e 19,00), che ne aveva curato la prima edizione per Cargo, piccola e raffinata casa editrice napoletana alla quale va il merito di aver proposto, con notevole intuizione, questa e altre opere di Jacobson, tra cui gli eccellenti Kalooki Nights, L’imbattibile Walzer e Un amore perfetto.
In L’enigma di Finkler – ed è una novità assoluta per Jacobson – il protagonista non è ebreo di nascita, e proprio per questo aspira a diventarlo, con una tensione che lo coinvolge interamente. I due deuteragonisti, entrambi ebrei più o meno osservanti, incarnano le due anime dell’identità ebraica: l’adesione acritica e il rifiuto laico.
Julian Treslove è un uomo con due figli ma senza legami, che ha trascorso l’intera esistenza modellandola sul melodramma e corteggiando, prima di tutto nelle relazioni sentimentali, la malattia, la morte e l’abbandono, al punto di sospettarsi affetto da quello che lui stesso chiama il «complesso di Mimì».

Licenziato dalla Bbc perché le sue trasmissioni sono troppo deprimenti, trascorre la vita impersonando personaggi famosi: non per una effettiva somiglianza, ma perché l’indeterminatezza con cui affronta la vita sembra essersi trasmessa ai suoi tratti fisici, trasformandolo in una sorta di contenitore nel quale, a seconda delle circostanze, i suoi interlocutori potranno riconoscere tanto Brad Pitt quanto Dustin Hoffmann. A cambiare la vita di Julian sarà un’aggressione notturna da parte di una donna che, nel derubarlo gli sussurra una parola incomprensibile, identificata dal protagonista, dopo una serie di ipotesi insoddisfacenti, con il termine «giudeo».
Da quel momento, «diventare ebreo» si trasforma per Julian in un’ossessione, coltivata attraverso l’incontro con una perfetta incarnazione femminile del popolo eletto, Hephzibah, e il quotidiano confronto con i suoi due migliori amici, entrambi ebrei ed entrambi vedovi: il Finkler del titolo, re dei salotti televisivi e autore di volumi nei quali coniuga abilmente self-help e filosofia, e Libor Sevcik, un anziano docente di storia specializzato in vicende praghesi, che a lungo si è guadagnato il pane gestendo una colonna di gossip su Hollywood, e frequentandone le dive.

Finkler e Sevcik, oltre ad aver gravitato o a gravitare intorno al mondo dello spettacolo, rappresentano anche le due polarità opposte dell’ebraismo: il primo ne contesta il vittimismo latente, che induce a prendere per buona qualunque azione compiuta da Israele, inclusa l’oppressione del popolo palestinese, e aderisce a un gruppo denominato Ashamed Jews, che rasenta a tratti l’antisemitismo; il secondo ribadisce in più sedi come le persecuzioni subite rappresentino un’enormità storica dalla quale non può che derivare, per contrasto, uno status privilegiato quando non una sottrazione al giudizio.

Jacobson racconta i suoi tre personaggi attraverso una scrittura che sprizza intelligenza e umorismo a ogni pagina, quale che sia l’oggetto delle loro discussioni, dalla circoncisione alla Striscia di Gaza. Per cogliere a pieno l’arguzia che scorre lungo tutto L’Enigma di Finkler, è sufficiente soffermarsi sul passaggio nel quale, a romanzo appena iniziato, viene descritto il «complesso di Mimì» dal quale è afflitto Julian: «Per quanto ne sapeva, nessuna donna che avesse amato e con la quale fosse andato a letto era morta, e comunque ben poche erano rimaste con lui abbastanza a lungo perché la loro morte si trasformasse nel commovente finale di quella che avrebbe potuto definirsi una relazione importante. Questa aspettativa di tragedia non consumata gli conferiva un aspetto stranamente giovanile. L’aspetto che acquistano le persone rinate a nuova vita grazie alla fede».

Umorismo e riflessione sull’identità ebraica rimangono le due cifre dell’intero romanzo, rendendo inevitabile il paragone con il Roth sulfureo di Lamento di Portnoy o di Operazione Shylock, filtrato, magari, attraverso il miglior Woody Allen. D’altro canto, l’attenzione estrema ai meccanismi sociali e alla dimensione collettiva del dibattito sull’ebraismo dà al romanzo un respiro che va al di là delle battute al fulmicotone dalle quali è scandito. E che rende almeno in parte giustificata la definizione di se stesso che Jacobson ha dato in un’intervista al New York Times: «uno scrittore inglese che sa diverse cose degli ebrei e al quale piacerebbe scrivere come Jane Austen, con una spruzzata di Yiddish».