Murder, Italian Style – omicidio all’italiana- è il sottotitolo della recensione di House of Gucci pubblicata sul «New York Times». Un ammicco, quello del critico A.O. Scott, che pare evocare il titolo inglese di Matrimonio all’italiana (Marriage Italian Style). Diversamente dal film di De Sica, uscito nel 1964, e molto amato anche negli Usa, il nuovo lavoro di Ridley Scott non è una commedia. Non è nemmeno un thriller, o una satira. Le sue radici in un libro di Sara Gay Forden, che partiva dalla spettacolare uccisione di Maurizio Gucci (liquidato a sangue freddo sui gradini d’ingresso del suo ufficio di Milano, nel 1995), per ricostruire la saga famigliare dietro alla celeberrima casa di moda fiorentina, House of Gucci racconta in modo fedele quella storia, ma riconduce a un’uniformità educatamente patinata, come disdegnosa di «facili sensazionalismi», il tono esplosivo del blurb del volume, che anticipava un cocktail di «omicidio, pazzia, glamour e avidità».

IL GLAMOUR è una versione hollywoodiana – filtrata dalla sensibilità di grandi magazzini di lusso del Midwest come Neiman Marcus – di quello di quello raffinatissimo, da insider, che si troverebbe in un film di Tom Ford (qui interpretato da Reeve Carney) o di Luca Guadagnino (la residenza dei Gucci è la casa di I Am Love). La pazzia arriva in un’impennata camp solo verso la fine. E che il business della moda sia animato da avidità, come tutti gli altri, non è proprio una scoperta.
Scott, che acquistò il libro di Forden nel 2000, poco dopo l’uscita, aveva già dimostrato il suo interesse per il true crime dell’aristocrazia finanziaria in All The Money in the World, sul rapimento di Paul Getty III. In House of Gucci, i suoi artigli sembrano più trattenuti. L’equivalente del ruolo in cui Christopher Plummer aveva affondato i denti con tanto gusto (dopo essere stato digitalmente inserito nel film in sostituzione di Kevin Spacey, cancellato dalla prima ondata del #MeToo), qui è andato a Lady Gaga, abilmente scritturata nella parte di Patrizia Reggiani, ex signora Gucci, condannata a ventinove anni di prigione per l’omicidio di suo marito Maurizio. Nel film, la incontriamo mentre sfila, con simpatico nonsoché da Mae West, davanti ai muratori nel cantiere del papà impresario edile. Dopo averlo intercettato per caso ad una festa, Patrizia/Gaga si butta su Maurizio (Adam Driver), con la determinazione di un proiettile.

NEI PANNI del nipote del fondatore della Casa, Guccio Gucci, e figlio di Rodolfo (Jeremy Irons), Driver riflette con naturalezza l’eleganza e la confidenza un po’ ritrose che si immaginano in una fiction sull’alta società ai vertici di un marchio/famiglia come Gucci. Più colorito è l’altro ramo della discendenza, quello che fa capo al fratello di Rodolfo, Aldo (Al Pacino), e a suo figlio Paolo (Jared Leto, irriconoscibile) che, insieme alla chiromante Pina (Hayek), complice dell’omicidio, contribuiscono i tocchi sopra le righe di questo film voyeur ma non troppo. Patrizia dimostra -almeno in apparenza- più ambizione, intuito e spericolatezza imprenditoriali di suo marito, e si introduce abilmente nell’intrigo di famiglia contribuendo, racconta House of Gucci, al radicale svecchiamento del marchio e al suo riposizionamento internazionale. Ma la sua scalata sociale subisce un brusco arresto quando Maurizio comincia a perdere d’interesse nei suoi confronti e dimostrarsi più «Gucci» del previsto. L’epilogo è un groviglio di tabloid, melodramma e lotta di classe che nemmeno l’intelligente interpretazione di Gaga riesce a rendere realmente appassionante.