È rimozione numero due per Kevin Spacey. Diversamente da Ridley Scott (che rigirò intere sequenze di All the Money in the World sostituendo l’attore, sommerso di accuse di molestia sessuale, con Christopher Plummer) Netflix e i produttori di House of Cards optano per il vecchio, collaudato metodo delle soap opera – uccidere un personaggio tra una stagione e l’altra.
All’inizio del primo episodio degli otto che costituiscono la stagione conclusiva della serie ideata da Beau Willimon, scopriamo infatti che Frank Underwood (Spacey) è morto –a letto al fianco di sua moglie Claire (Robin Wright), il primo presidente donna degli Stati Uniti.

Certo, trattandosi di House of Cards, dietro alla versione ufficiale dei fatti, c’è qualcosa di losco. E dietro alle lacrime della vedova inconsolabile un sospiro di sollievo. È Claire, con quel suo volto bello ed enigmatico, che adesso si rivolge direttamente allo spettatore, guardando in macchina, dopo aver seppellito Frank non ad Arlington come sognava lui ma in un cimitero del South Carolina vicino al detestatissimo padre. La signora presidente –che nell’ultimo episodio della scorsa stagione aveva ucciso il suo amante e che qui si libera anche del nome del marito recuperando quello che aveva prima di sposarsi, Hale – ha un piano che cova da anni e che intende mettere in atto.

L’uomo è invisibile persino in fotografia e non ci è dato di ascoltare le registrazioni nixoniane che pare effettuasse regolarmente, ma il fantasma di Spacey/Underwood aleggia vistosamente sulla Season 6. Ci sono Annette e Bill Sheperd (Diane Lane e Gregg Kinnear), attivisti ultramiliardari della destra, con quell’aura tra il machiavellico e l’incestuoso da Rebekah e Robert Mercer, che tentano di riscuotere da Claire ciò che Frank aveva loro promesso e hanno mire sulla Corte suprema. C’è il fedelissimo, shakespeariano ex capo del gabinetto Doug Stamper, rilasciato dalla prigione dove ha pagato per un omicidio commesso da Frank, che lui continua ad adorare lo stesso.

Ci sono giornalisti uccisi, un vicepresidente ambizioso e la strana Mata Hari Jane Davis (Patricia Clarkson). Ma oltre che su queste trame e sui personaggi delle stagioni precedenti, il fantasma di Spacey/Underwood pesa anche in modo metaforico. Ardentemente voluto da Robin Wright (Netflix aveva pensato di chiudere baracca) questo post scriptum sembra concepito anche come una dichiarazione programmatica, un manifesto del 50/50 e di Times’s Up –a partire da dietro la macchina da presa, dove quattro degli otto episodi sono diretti da donne: Ami Canaan Mann, Stacie Passon, Louise Friedberg e la stessa Robin Wright.

Ancora più radicale del 50/50 il plot line secondo cui Claire, fingendosi pazza di dolore, ordisce un tranello per cogliere in fallo il suo gabinetto dei ministri e poi licenziarli in tronco, sostituendoli solo con donne. Ma quella di Claire è una pris-au-pouvoir totalmente priva di gioia, e sembra di soddisfazione. L’immagine del presidente Hale –caschetto biondo da belva delle SS; un guardaroba di austeri abiti grigi, elegantissimi: armature, in bilico sui tacchi Laboutin – a capo di un enorme tavolo del potere da cui sono stati banditi tutti i maschi sembra una distopia margaretatwoodiana capovolta. Ancor più in direzione distopica l’apparizione di una gravidanza (dopo gli aborti, per non intralciare la scalata politica di Frank) nell’episodio numero 7. Non ci è dato di sapere cosa Claire, insieme alle nuove ministre, farà del suo potere, o del suo bebè (naturalmente una bambina). Solo che ha vinto, su tutta la linea. E che non basta.

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