Hong Kong è l’utopia del capitalismo che si realizza. Nonostante la sua densità demografica e immobiliare, le automobili arrivano fino al mare grazie a scorrevoli arterie e senza fastidiosi pedoni tra le ruote, dato che quelli sono spediti lassù, nei passaggi sopraelevati e coperti, affinché i due mondi non si sfiorino. Chi cammina, attraversa costantemente tunnel di luci e vetrine, un infinito duty-free in cui vedere il cielo non è in fondo così necessario.

All’improvviso spunta un grazioso giardinetto tra i grattacieli ed entri quindi nello zoo più urbano ma silenzioso del mondo dove, se hai voglia di scarpinare in salita, finisci per sbattere contro la gabbia dei lemuri che ti guardano spiritati.
A venti minuti di traghetto dai moli di Hong Kong Island e da una città con sette milioni di abitanti, ci sono isole tropicali chiuse al traffico, dove ricaricare le pile per tornare dritto al lavoro il giorno dopo. Là, oltre quel nuovo compound di grattacieli, c’è un po’ di giungla che ti consente il piacevole «fuori porta» con suggestioni alla Kipling. Tutto molto cosy, tutto molto «rule Britannia», con quel pizzico di lussureggiante Oriente che non guasta.

Poi, fai tre fermate di metrò e sei in mezzo ai portuali che occupano i docks da quaranta giorni per avere un salario migliore e orari umani. E incontri ovunque le decine di Ong e associazioni che percorrono la città e la rendono tra le più politicamente attive dell’Asia.
Che fascino, Hong Kong.

Nasce già città, già porto, già crocevia di persone e merci dopo le due guerre dell’oppio che segnano l’inizio del «secolo dell’umiliazione» per la Cina. Nel 1842, una dinastia Qing che si lecca le ferite dopo le cannonate inglesi, cede la semidisabitata Hong Kong Island a Sua Maestà; Kowloon, la parte peninsulare, si aggiunge dopo la seconda «lezione» del 1860.
Nella colonia arriva soprattutto l’oppio, con cui gli inglesi fanno lauti affari e inondano la Cina.
Non ci guadagnano solo loro, però, e questo spiegherebbe perché in città il risentimento anticoloniale è pressoché assente anche oggi.

«I Tankas – cioè i boat-people della Cina meridionale – fornivano personale marinaro ai colonizzatori e alcuni si arricchirono grazie alla collaborazione con gli inglesi nelle guerre dell’oppio», racconta Daniel A. Bell, professore di scienze politiche all’università Tsinghua di Pechino. I Compradores, gli intermediari cinesi per i mercanti europei, raggiunsero così nuovo status e potere, pur nel sostanziale apartheid imposto dagli inglesi. Nel 1858 erano attive sessantacinque hong, le società commerciali dei locali, che si contendevano con quelle britanniche anche il commercio della preziosa droga, esportandola a tonnellate nelle comunità cinesi d’oltremare, dalla California all’Australia. Finché la stessa amministrazione di Hong Kong decise di concedere in leasing il monopolio dell’oppio locale ad un commerciante cinese, il quale ripagava con il cospicuo canone che costituì una delle principali fonti di entrata del governo per decenni.

Ma è dopo la rivoluzione repubblicana di Sun Yat-sen in Cina, nel 1911, che la ricchezza di Hong Kong esplode. La città si ritrova infatti improvvisamente unica porta d’ingresso dell’oppio che il nuovo regime ha invece vietato sul continente. Al 1918, metà delle revenues della colonia dipendono dalla preziosa sostanza e si inaugura così la tradizione secondo cui Hong Kong – nata da un disperato divieto del «Figlio del Cielo» che ha scatenato una guerra coloniale punitiva – trarrebbe beneficio da tutto ciò che in Cina non si può fare.

Questa peculiarità, così come il laissez-faire promosso e ostentato, attira gente. Così la popolazione cresce: 1,6 milioni negli anni Trenta del Novecento; 1,8 nel 1945, dopo la fine dell’occupazione giapponese e le fughe di massa dalla Cina martoriata; oltre 5 milioni nel 1981, molti in cerca di riparo dagli eccessi della Rivoluzione Culturale; sette milioni oggi.

Ma il processo non è lineare e più che di un accumulo si può parlare di un turnover. Succede per esempio così all’indomani del 1989, quando i fatti di Tian’anmen fanno scappare negli Usa e in Canada circa 600mila hongkonghesi terrorizzati dal futuro handover – il ritorno della colonia alla Cina – mentre parecchi «continentali» li rimpiazzano filandosela da Pechino e dintorni.

«Forse la spiegazione chiave per l’apparente acquiescenza al dominio britannico – spiega ancora Bell – è che le alternative sembravano ancora peggio. In breve, i colonizzatori britannici non erano particolarmente amati, ma non sembravano così male come gli invasori giapponesi durante la guerra o i comunisti cinesi».

Gli anni del boom demografico sono anche quelli dello sviluppo verticale: dove far stare, se non nei grattacieli, tutta quella gente schiacciata tra l’oceano Pacifico e l’ingombrante Dragone alle spalle? Conseguentemente, sono anche i decenni della grande speculazione immobiliare.

Hong Kong può far pagare alle imprese e alle persone fisiche tasse bassissime (15-16,5 per cento) ed ergersi a modello del capitalismo realizzato che fa cinguettare di gioia perfino Milton Friedman, perché in quegli anni trae il 30 per cento delle sue revenues dalle concessioni edilizie sui terreni, che di solito sono ceduti ai palazzinari per un periodo compreso tra i 75 e i 999 anni ed abilmente centellinati per tenere i prezzi alti. Più si sta in centro e più i prezzi salgono (da qui, gli insostenibili affitti di Central e aree limitrofe), mentre quasi tutto finisce nelle mani di tre immobiliari – Henderson Land, Sun Hung Kai e Cheung Kong – che di fatto sono una sorta di cartello del mattone e del cemento. Tra 1992 e 1996 le tre sorelle diminuiscono di comune accordo la quantità di case vendute, i prezzi aumentano del 400 per cento e i profitti raddoppiano.

È quello il periodo in cui l’identità di Hong Kong si ricostruisce intorno alle comunità urbane che si ritagliano una spazio tra le pieghe della speculazione. «È gente che vive in luoghi specifici – ci racconta Huang Zongyi, ricercatrice di Taiwan che ha cercato di leggere l’identità degli hongkonghesi attraverso la rappresentazione che ne dà la cospicua produzione cinematografica locale – come la città murata di Kowloon e la Chungking Mansion. Nel film Little Cheung, il regista Fruit Chan identifica l’area di Mong Kok – il posto più densamente popolato al mondo, con 130mila abitanti per chilometro quadrato – come la quintessenza di Hong Kong, per via delle sue stradine piene di gente e di piccoli ristoranti a buon mercato».

«Oppure – continua Huang – rappresentano Hong Kong gli immigrati che si succedono per diverse generazioni: indiani, pachistani, indonesiani, perché la città è cosmopolita. Assomiglia a Shanghai, ma si sviluppa prima della sorella-rivale del continente, e le genti che la popolano si definiscono cittadini del mondo. Come città globale funziona piuttosto bene, è la più importante in Asia orientale, e la sua popolazione si autorappresenta intelligente, efficiente, imprenditoriale».

La riconsegna alla Cina del 1997 avviene sulla base della formula «un Paese due sistemi», inserita nero su bianco nell’articolo 5 della costituzione di Hong Kong: «Il sistema capitalistico preesistente e lo stile di vita rimarranno invariati per 50 anni».

Pechino in realtà non sembra avere nessuna intenzione di cambiare il sistema dell’ex colonia britannica, anzi: per evitare la fuga di capitali e persone, si allea con i capitalisti locali.

Tipico è il caso del Cyberport, il progetto di Silicon Valley hongkonghese da costruire in una zona centralissima di Hong Kong Island e che viene sospeso nel 2000 al momento del crollo della net economy (e della “vera” Silicon Valley negli Usa). I terreni sono poi di fatto «regalati» a Richard Li, figlio del miliardario Li Ka-shing e boss del gigante dell’information technology Pccw, che li utilizza per una grande speculazione immobiliare.

La nuova amministrazione, che si conforma al vecchio regime coloniale – un consiglio «provvisorio» dominato da uomini d’affari, questa volta pro-Cina – ribadisce il quasi monopolio delle tre sorelle della speculazione immobiliare e finisce per esportare nel continente un modello di sviluppo economico simile, aprendo succulente opportunità di cementificazione per gli stessi palazzinari hongkonghesi. Li Ling-hin, docente di architettura all’università locale, l’ha definito «sistema socialista di proprietà terriera» (Socialist land-tenure sistem).

Pare che Ridley Scott abbia proprio preso Hong Kong come esempio per creare la megalopoli cupa e opprimente di Blade Runner. Oggi si dice che Chongqing, oltre trenta milioni di abitanti nella Cina centro-occidentale, sia esattamente quella città divenuta reale. In questo passaggio da Hong Kong a Chongqing via fantascienza cinematografica, si sintetizza ciò che l’ex colonia britannica ha dato alla Cina. O forse, ciò che la Cina ha voluto prendersi.

«Il modello del grattacielo nasce a Hong Kong per ragioni di spazio e poi diventa un’icona», ci dice Gregory Bracken, Research Fellow all’International Institute of Asian Studies di Amsterdam. «Le città cinesi lo prendono proprio in quanto icona, anche se magari hanno tantissimo spazio a disposizione per costruire in altro modo. Da architettura funzionale, il grattacielo diventa simbolo di prestigio e potenza. È una specie di postmoderno secondo caratteristiche cinesi».

Intanto nella Hong Kong post handover, lo stato d’animo è in gran parte positivo grazie al boom economico, con il mercato azionario ai massimi storici. I cinesi precedentemente scappati cominciano a tornare per cogliere le opportunità di business e veicolare risorse verso il continente.
Così, a cavallo tra due colonizzazioni – quella britannica e quella cinese – si plasma l’identità di Hong Kong, che alcuni hanno provato a spiegare con il concetto di “assenza”. «La città è stata definita negativamente, come un deserto culturale», racconta ancora Huang Zongyi. «A causa del retaggio coloniale e del fatto di non avere mai avuto un vero e proprio governo locale autonomo, gli hongkonghesi avrebbero concentrato tutte le loro energie nel fare soldi e non si occuperebbero di cultura o di politica. È una teoria piuttosto diffusa e io la trovo ingiusta».

Come spiegare infatti tutto quell’attivismo così appariscente nella Hong Kong di oggi?
Viene dalla mentalità confuciana – sostiene Daniel A. Bell – non dall’idea socialista.
«Secondo l’etica confuciana, la morale non si esaurisce con la famiglia. È l’esatto contrario: si apprende in famiglia e poi va estesa agli altri rapporti sociali. Così si spiega perché tra il 2001 e il 2009 gli abitanti di Hong Kong abbiano raddoppiato il numero di ore che hanno dedicato al volontariato».

Secondo Huang Zongyi, il nuovo attivismo è dovuto al «fattore Cina».
I dockers in sciopero che nell’aprile scorso abbiamo incontrato accampati di fronte all’ingresso del molo di Kwai Tsing a Kowloon, venivano riforniti quotidianamente di cibo, tende e materassi, da una miriade di gruppi e associazioni, che attuavano al tempo stesso proteste lampo in gro per la metropoli. I portuali protestavano contro il già citato Li Ka-shing, «sir» per la Corona britannica in virtù del suo filantropismo, uomo più ricco dell’Asia e ottavo nella classifica globale di Forbes, presidente del gruppo Hutchison Whampoa e operatore della maggior parte dei terminal per container al mondo. Chiedevano due cose – più soldi e migliori condizioni di lavoro – ma ci hanno anche raccontato che la paura diffusa è proprio quella di «diventare Cina»: trasformarsi in tutto e per tutto nel Paese formalmente socialista che si allea con il capitalismo più aggressivo, che abbatte il costo del lavoro a botte di dumping.

Là dietro c’è Shenzhen – indicano con la mano – se Li trasferisce laggiù le attività del terminal, loro sono in mezzo a una strada. Alla fine accetteranno una soluzione di compromesso, un piccolo aumento e più pause durante i turni di lavoro, e per ora quello che fu il principale porto dell’Asia è salvo.

Ma ci sono nuvole all’orizzonte. Pochi giorni fa, il governo cinese ha annunciato che a Shanghai sarà creata una zona pilota di libero scambio, un porto franco dove saranno liberalizzati i flussi di capitali e lo scambio di merci transfrontaliere.

Si vuole trasformare la metropoli sullo Huangpu in uno dei principali centri finanziari del mondo, in un esperimento che assomiglia molto alla creazione di «zone economiche speciali» all’epoca di Deng Xiaoping. Un’impresa aggiornata alla finanziarizzazione contemporanea dei mercati globali.

Il South China Morning Post – il maggiore giornale di Hong Kong – ha commentato: «Le ambizioni di Shanghai di diventare motore economico della nazione, scavalcando Hong Kong come centro finanziario leader nella regione, sono un segreto di Pulcinella. L’incentivo politico tanto atteso e concesso dal governo non fa che aggiungere peso ai tentativi della città di attirare capitali e talenti globali».

«Le due città competono da oltre un decennio – dice Huang – ma il governo cinese ci tiene a dire che Shanghai è la città globale per la zona del fiume Yangtze mentre Hong Kong lo è per il Sud-Est asiatico. Hanno la stessa importanza e coprono semplicemente aree diverse. In base alla retorica ufficiale non sono in concorrenza, ma complementari. Tuttavia, soprattutto dopo l’epidemia di Sars nel 2002-03, l’economia di Hong Kong è rimasta depressa per alcuni anni e la popolazione locale ha cominciato a maturare una psicologia del declino, secondo cui la città ha perso il ruolo di città globale più importante dell’Asia orientale, non solo a vantaggio di Shanghai, ma anche di Singapore, Taipei e di tanti altri concorrenti».

Così Hong Kong cerca di riposizionarsi come «Asia World City», slogan ufficiale dell’amministrazione speciale. «È una grande ambizione, ma non sono sicura che ci riusciranno, perché Shanghai si sta sviluppando molto più rapidamente».

«Credo che la Cina cercherà sempre di più di spostare il baricentro da Hong Kong, Macao e Taiwan, verso città dell’interno, come Shanghai – aggiunge Gregory Bracken – perché sono completamente cinesi, mentre le altre mantengono una propria identità non completamente omologata. Il governo agisce con molto pragmatismo e determinazione, quindi ritengo che Hong Kong diventerà una città di secondo o terzo livello dopo Pechino e Shanghai».

Hong Kong è il modello espropriato. Il suo status globale, unico, si va perdendo proprio perché ormai tutto diventa globalizzazione. La sua nicchia scompare. «Eppure ci sono ancora molte cose che i continentali possono imparare dalla città», sostiene Huang Zongyi. «Per esempio la funzione civile delle Ong, la lotta all’inquinamento, come affrontare il problema della corruzione; tutto ciò che in definitiva ha a che fare con le conseguenze dello sviluppo. Hong Kong ha ancora molto da offrire».