«Non è quello che ci aspettavamo di vedere». È il commento glaciale che è giunto da Pechino poco dopo il voto con il quale il parlamento di Hong Kong ha affossato la possibilità di suffragio universale per le prossime elezioni. Una battuta d’arresto non da poco per Pechino, nella gestione – controversa – dell’ex colonia britannica.

Ieri il parlamento di Hong Kong ha infatti bocciato la proposta di riforma elettorale della città stato, che prevedeva un suffragio universale a partire dalla prossima consultazione elettorale, nel 2017. Le procedura di elezione del primo ministro, il chief executive, si sarebbero dunque dovute allargare a tutta la popolazione, sebbene nella proposta cinese si nascondesse un piccolo trucco: l’elenco dei candidati avrebbe dovuto pescare tra personalità indicate da Pechino.

Niente di fatto però, e così le prossime elezioni si svolgeranno come al solito, ovvero attraverso un comitato elettorale composto da un migliaio di persone, in gran parte gradite alla Cina. Perché dunque Pechino dovrebbe essere irritata dal voto contrario, come avrebbe già dimostrato attraverso le parole di alcuni funzionari? Innanzitutto perché il voto avverso nasce e arriva a seguito di un anno di proteste che hanno bloccato gran parte della città e rinfocolato un odio tutto locale contro la Cina.

Il «trucco» era stato ben presto scoperto da larghe fasce di popolazione locale, professori, intellettuali e studenti, che avevano dato vita alla «umbrella revolution» che tanto aveva colpito l’immaginario occidentale.

Proteste poi terminate, ma la cui semina sul terreno del confronto politico, ha finito per raccogliere un risultato importante. In molti a Hong Kong parlano di un voto «a favore della democrazia». In secondo luogo perché il voto negativo è frutto di un errore clamoroso del fronte legislativo di Hong Kong pro Pechino e potrebbe essere la classica buccia di banana sulla quale far scivolare, per sempre, l’attuale primo ministro di Hong Kong, CY Leung. Chi avrebbe voluto votare a favore, ha infatti deciso di lasciare l’aula per attendere altri voti positivi.

Ma qualcuno non ha capito, votando a favore e finendo per convalidare un voto evidentemente a sfavore (l’obiettivo di chi era uscito dall’aula era invece annullare il voto). E così con solo otto voti favorevoli, è stata affossata la verniciata democratica che Pechino volevo affidare all’ex colonia britannica. Ecco la rabbia della Cina: l’occasione per dotarsi di un sistema a suffragio universale era, per quanto con dei limiti, un importante risultato, da mettere su diverse bilance in giro per il mondo.

Sono delusi anche parecchi businessmen, a quanto dicono i media di Hong Kong. Molti miliardari locali sanno bene da dove arrivano le proprie ricchezze e avevano sposato la proposta elettorale pechinese. Ora si ritrovano sconfitti e non sono abituati a trovarsi da quella parte della vita. Esultano invece i democratici dell’isola, sia quelli sinceri, sia quelli aiutati nella propria battaglia dal consueto giro di ong vicino a Usa e potenze occidentali, anche se si tratta di una vittoria parziale.

Bloccata la riforma il governo ha già fatto sapere che per ora di proporne un’altra non se ne parla. Si andrà avanti con quello che c’è e quindi il prossimo primo ministro sarà eletto dal consueto comitato. Secondo il Wall Street Journal, «Pechino ora affibbierà probabilmente la colpa a quella che definisce «agitazione» da parte di una fazione pro-democrazia che non rappresenta lo stato d’animo popolare di Hong Kong».