Quali film, quali cartoni animati e poi quali serie tv guardano le bambine e le ragazze? E con quali modelli di donne, di rapporti di genere e di società formano se stesse? Se mettiamo insieme il fatto che l’humus da cui germina il nostro pensiero è determinato dalle immagini che vediamo nella prima infanzia e il dato che attesta che a Hollywood si produce l’80% dei contenuti mediatici mondiali, capiremo come indagare le disparità di genere all’interno della più grande fabbrica di immagini sul pianeta possa essere decisivo.

Muovendo da questi due assunti cruciali, ha agito This changes everything, documentario cui il regista Tom Donahue ha dedicato tre anni e mezzo di lavoro, studio e approfondimenti, con interviste a filmmaker, attrici, produttrici, attiviste e avvocate, tra loro alcune sono notissime: Meryl Streep Cate Blanchett Jessica Chastain Reese Witherspoon…

Tra le diverse variabili coinvolte nel sistema, fondamentale risulta quella dei dati e la collaborazione con il «Geena Davis Institute on Gender in Media», fondato nel 2004 dall’attrice, interlocutrice privilegiata del film: perché senza l’inoppugnabilità oggettiva di statistiche e percentuali, la lotta contro le discriminazioni di genere sarebbe di certo in balia del più vieto negazionismo.

E quando parliamo di dati, ci riferiamo non soltanto al numero di professioniste che nel sistema operano, a quanto vengono pagate, alla possibilità che hanno di fare il secondo film, o a quante fra loro si siano aggiudicate l’Oscar per la regia (la sola Kathryn Bigelow con The Hurt Locker nel 2009!), ma a quello che la suddetta sottorappresentazione delle donne produce in termini di contenuti e sulla percentuale di protagoniste e coprotagoniste femminili.

Per esempio, una ricerca condotta dal «G. Davis Institute» su 101 film usciti tra il ’90 e il 2005 attesta che il 72% dei ruoli con battute erano maschili, mentre il test di Bechdel-Wallace, nella sua apparente facilità (lo superano le opere con almeno un dialogo tra donne che non parlino di un uomo), nelle indagini svolte in Svezia, per di più all’interno di un cineforum, rivela devastanti sorprese.

Ma accanto alla indispensabile quantificazione dei fatti, c’è un oltre che riguarda la qualità dei contenuti e dei ruoli proposti alle donne, se siano complessi e incisivi, o se invece siamo rappresentate come mogli o fidanzate da lasciare o da salvare, sminuite, fin dai film d’animazione, come oggetti sessuali che possono percepirsi solo attraverso lo sguardo maschile, tanto da coltivare in sé l’idea – come Davis stessa afferma – di essere «meno preziose dei maschi».

Dunque attenzione assoluta perché «le bambine ci guardano», li guardano i film – mentre This changes everything ne fa il suo leitmotiv stilistico, inquadrandole più volte nella penombra ora desueta della proiezione in sala, spiandone il volto, il sentire. E perché come recita la mission del «Davis Institute»: if she can see it, she can be it, se lei può vederlo, può esserlo.

A fare da contraltare alle questione delle più piccole, la storia delle lotte delle donne adulte, come quella delle «Original six» negli anni ‘80 o quella intrapresa dalla regista Maria Giese o dalla critica Maureen Ryan, tutte inseparabili dal cammino delle leggi.

Altre variabili riguardano, poi, il tracciato delle pioniere e quegli albori felici del cinema, segnati da una partecipazione di nomi di professioniste che ricama tutta l’inquadratura: nomi che l’avvento del sonoro, i set in interni e l’alleanza tra le banche e Hollywood col sistema capitalistico patriarcale fanno via via sparire dall’immagine.

In tutto questo, la grande onda del #MeToo, sorta nel 2017 e focalizzata sul denunciare il sistema di potere fondato sul ricatto sessuale, pur essendo parte indissolubile del puzzle, non è il cuore del film, ma solo una tessera nel finale.

Quale sarà dunque un vero punto di non ritorno? Donahue – qui a colloquio dal suo studio di New York – dispiega una piattaforma cinematografica ricchissima di analisi e di contributi di donne dietro e davanti la macchina da presa, sprone a un attivismo sempre più meditato e affilato.

Ci racconta la genesi di questo lungo progetto?
Lo spunto iniziale è stato Casting by, uno dei miei documentari precedenti e il mio primo confrontarmi con la questione di genere a Hollywood. La professione del casting non è presa su serio – è ancora l’unica parte importante dei credit, che non ha una categoria agli Oscar – e mi sono reso conto che ciò avviene perché è a maggioranza svolta da donne. Quel film ha innescato la mia voglia di esaminare forze più ampie in un sistema che ha metodicamente sminuito le donne. Così nel 2015 ho cominciato questo viaggio lungo tre anni e mezzo che è diventato This changes everything. E sono stato introdotto alle ricerche di Geena e del suo istituto, realizzando l’impatto smisurato che la disparità a Hollywood ha sul mondo. Quando metà della popolazione del pianeta non ha voce, l’intera cultura è degradata.

Il titolo italiano del film è «Qualcosa sta cambiando». Ma l’accezione concepita è più complessa. Cosa intendeva esattamente?
Il titolo deriva dalla mia seconda intervista con Geena, in cui lei racconta come l’incremento dei ruoli femminili da protagonista a un certo punto fosse andato oltre ogni aspettativa (è accaduto per esempio con Thelma & Louise o con Il diritto di contare…), tanto da spingere alcuni a credere che ci sarebbe stato un cambiamento radicale, che poi invece non è avvenuto. Così il titolo fa riferimento ai momenti della storia in cui sembra che una trasformazione stia accadendo (momenti come questo post-elezioni), solo per poi dover tornare indietro (come è stato per l’elezione di Trump o con la morte di Ruth Bader Ginzburg). Mai considerare i momenti di cambiamento come garantiti.

Ha citato Ruth Bader Ginzburg, una figura imprescindibile nella storia americana dei diritti delle donne (e non solo americana, direi, un punto di riferimento per il mondo). Ha mai pensato di coinvolgerla nel film?
Sarei stato certamente onorato di dialogare con RBG. Sono un suo ammiratore gigantesco. Ma ho cercato di far sì che le interviste rimanessero focalizzate sulle persone all’interno dell’industria hollywoodiana. Facendo questo mestiere, ho realizzato negli anni che se un documentario si espande troppo dalla sua tesi centrale (disuguaglianza di genere a Hollywood), può facilmente perdere a sua strada.

Cosa ha significato per lei da uomo intraprendere questo progetto?
Come regista uomo, ero pienamente consapevole che c’erano troppo pochi uomini a esporsi sull’argomento. Come dice Meryl Streep nel film: “Il cambiamento può accadere soltanto quando gli uomini prendono posizione in questo senso”. L’intera nostra società deve confrontarsi con questa ingiustizia, non soltanto coloro che la subiscono.

Ci racconta della sua formazione e di come è venuto a contatto con la questione di genere?
Sono femminista da quando avevo 10 anni! A ispirarmi è stato l’attivismo di un uomo, Alan Alda, la star del mio show preferito quando ero bambino. (M*A*S*H, ndr). Io venivo da un ambiente domestico molto conservatore dove «femminista» era considerata una brutta parola, così sentire il mio eroe definirsi in questo modo ha avuto un grande impatto su di me. Prendendo esempio da lui, da teenager ho cominciato a leggere sull’argomento.

E cosa ha potuto osservare del lavoro dei suoi colleghi maschi, rispetto a discriminazioni messe in atto anche in modo latente?
Per prima cosa ho dovuto confrontarmi con i miei pregiudizi e impulsi inconsci. Nonostante la mia formazione, per i miei precedenti film mi ero circondato di troupe quasi interamente composte da uomini. Invece ho capito che dovevo ingaggiare professioniste fuori dal mio normale giro. This changes everything ha una troupe al 75% femminile.

Un elemento centrale nella lotta sono i dati e il lavoro del Geena Davis Institute. Eppure non sono tutto.
Sono imprescindibili ma non sufficienti. Per decenni le donne hanno raccolto dati per mostrare la prova che poi molti uomini di potere sceglievano e scelgono tutt’ora di ignorare. Questo rivela che tanti pregiudizi e ineguaglianze non sono inconsci. Ecco perché ho sentito che era importante riprendere un CEO come John Landgraf che ha visto i dati e ha operato il cambiamento, portando le registe che lavorano con la FX a essere il 49%.

Racconta delle battaglie condotte dalle donne all’interno del sistema di Hollywood: quelle delle Original six, di Maria Giese e di Maureen Ryan. Voleva aprire uno spazio non solo per denunciare ma anche per far sì che le donne e gli uomini coinvolti nella causa entrassero in contatto, oltre il senso di frustrazione e di solitudine che spesso prova chi affronta queste lotte? Dall’altro lato, un fil rouge del film è dato dalle bambine che guardano uno schermo. Sono due aspetti fortemente interrelati tra loro…
Sì, è così: da un lato volevo sostenere queste donne come modelli per ispirare le future generazioni con le storie delle loro battaglie e dei loro trionfi. Dall’altro, in modo sinergico, come due momenti interdipendenti, pensavo fosse importante mostrare ragazze e bambine che guardano i media, che questo avrebbe sottolineato l’impatto dell’argomento ai genitori e alle famiglie: quanto ciò che vedono, come dice Geena Davis, influenzi quello che sono e che saranno.

Nel film è centrale l’intervento di Meryl Streep e il suo racconto dei retroscena di «Kramer contro Kramer», film dell’81 che sentiva l’esigenza di parlare delle istanze del femminismo, ma poi non sapeva come trattarle e in parte le colpevolizzava.
Come dice Meryl Streep nel film, credo che un vero cambiamento non possa avvenire senza che gli uomini si uniscano alla lotta. Rispetto a Kramer vs Kramer è proprio vero. Allora sembrava un film femminista che mostrava il cambiamento dei tempi. Invece, come lei racconta, la situazione era fatta di forze retrive e evolutive insieme. Tanto che era stato chiesto a lei di scrivere la parte in cui la protagonista Johanna esprimeva le sue ragioni per essere andata via di casa, dal momento che né il regista né lo sceneggiatore avevano idea di cosa potesse provare.

Come vede il prossimo futuro?
A Hollywood un piccolo cambiamento reale è avvenuto ma sono scettico su quanto durerà e se andrà in profondità. C’è un largo consenso sul fatto che il tempo di parlarne e basta sia finito, ma anche questo discorso non è nuovo. Quello che veramente necessita è un enorme reset del sistema, non facile per l’ostruzionismo del contesto di tipo aziendale. I dirigenti degli studios eccetto uno non hanno accettato di essere intervistati. This changes everything è una chiamata all’azione per l’equità di genere, indispensabile se vogliamo evolverci come paese e come pianeta.