Nella prima sala della grande retrospettiva che la Tate Britain dedica a David Hockney (sino al 29 maggio; catalogo Tate Publishing) ci si imbatte in un quadro bizzarro e straordinario che è una precocissima dichiarazione di intenti (l’opera è del 1963). Vi si vede un arazzo, con scena surreale di natura, dipinto in trompe l’oeil in parallelo alla tela: un quadro dentro il quadro. Senonché nella parte bassa Hockney svela il gioco e apre uno spazio con un pavimento in prospettiva dove ha sistemato una sedia e la figura in piedi di un amico, il mercante John Kasmin. Con una soluzione di depistante ironia, l’amico si schiaccia contro la superficie della tela come se questa fosse una vetrina, con le mani e il naso che si dilatano a contatto di quella barriera trasparente immaginaria: per rendere ancora più verosimile il gioco Hockney ha poi appoggiato una lastra di perspex sulla tela. Play within a play è un quadro che stimola domande inedite in chi lo guarda: che ci fa John «dentro» quella tela? Si è forse lasciato tentare dal varcare la soglia del quadro e poi ne è rimasto intrappolato? Così, quasi giocando, Hockney lancia da subito il grande tema che contrassegna tutta la sua traiettoria artistica: come fare entrare «dentro» il quadro chi lo sta guardando?

Una volta, nel 1970, aveva posto in modo tanto esplicito il problema da dipingere due persone di spalle sedute davanti ad uno suo paesaggio (Le Parc de Sources), ma l’intento era troppo dichiarato e non funzionava. Per portare a casa quella sfida ci volevano soluzioni ben diverse. È un percorso di avvicinamento progressivo, che passa anche per fasi oggettivamente opache, come quella tra pop e informale degli inizi anni sessanta che occupa la seconda sala della mostra. Ma già nel capolavoro della prima stagione americana, il celebre A Bigger Splash (1967), si può scoprire che l’assetto «seuratiano» della composizione, costruito ordinatamente con geometrie perpendicolari, è alterato dall’obliquità del trampolino che entra in diagonale dall’angolo. Sembra una passerella messa a disposizione dell’osservatore: qualcuno in effetti deve essersi intrufolato nel quadro. E quello spruzzo bianco, vagamente spermatico, che agita in modo imprevisto il centro della tela, lo testimonia. Hockney per altro attorno all’immagine ha dipinto una cornice, trattata quasi come un intonaco. Forse è un muro nel quale è stata aperta una finestra: scavalcarla è una tentazione…

La fine degli anni sessanta è segnata dalla serie di grandi ritratti, tutti a coppie, che compongono una delle sale più clamorosamente belle della mostra. Se l’amico John Kasmin in quella tela del 1963 sembrava voler uscire dalla tela, in questi ritratti invece tutti danno l’impressione di trovarsi benissimo dove stanno. Hockney insomma gioca allo scoperto e mette in campo tutta la portata edenica della sua pittura. È ben evidente che si sta bene dentro lo spazio di questi quadri; tutti vorrebbero abitare quegli ambienti di misurata opulenza, liberati di ogni ansia, dove ci si immagina totalmente a proprio agio. La luce è tersa, lo spazio è ordinato, l’aria è calma. E i personaggi sembrano immersi in un’estate perenne, filtrata dai giochi sapienti delle finestre e delle persiane (ancora quadri nei quadri…).

È un’estate destinata a esplodere di colori e di dimensioni con la serie dei grandi quadri californiani degli anni ottanta. Hockney passa attraverso due esperienze chiave che dispiegano in ampiezza la sua pittura. Dal 1978 aveva iniziato a lavorare alle scenografie per opere liriche. La prima era stata per un Flauto magico per il festival di Glyndebourne, un progetto che lo aveva preso addirittura per un anno. Con le scenografie Hockney sperimenta un linguaggio visivo meno disciplinato, più arrembante, capace di trattare gli spazi con molto maggior disinvoltura. È un linguaggio che si adatta alla perfezione a quei paesaggi smisurati che si affacciano sull’oceano Pacifico (per lui la più grande piscina del mondo…). La seconda esperienza chiave è la grande mostra di Picasso vista al Moma nel maggio 1980. È davanti a Picasso che Hockney rompe gli indugi. I quadri crescono di dimensioni, ma ben di più crescono le dimensioni dei paesaggi che sono chiamati a contenere. Sono paesaggi che ci corrono davanti agli occhi, e di fronte ai quali siamo chiamati a esperienze immersive. In Pacific Coast Highway, una grande tela del 1990, le colline sulla destra sono colorate vistosamente in giallo e rosso. Non è un caso, perché sulla strada tracciata in cresta Hockney aveva l’abitudine di portare gli amici facendo vivere l’esperienza di guardare il paesaggio viaggiando in auto, con la musica di Wagner a tutto volume.

Picassianamente, un interno

Ma l’apice di questa stagione è paradossalmente (e picassianamente) un interno, Large interior, Los Angeles del 1988. È la composizione più terremotata di Hockney, che travolge l’osservatore e lo risucchia in uno spazio attraversato da un senso di concitato benessere: inevitabile sentirsi dentro il quadro, tanto il quadro ci arriva addosso e ci avvolge con le sue geometrie sconnesse e felici. È davanti a un’opera così che si capisce pienamente la natura del grande artista inglese e insieme anche la ragione del suo immenso successo. Hockney è artista dalle visioni contagiose che chiama tutti alla festa delle sue opere. Le sofisticate soluzioni tecniche che mette a punto con il passare degli anni vanno sempre lette in questa direzione. I quadri composti a mosaico sono come visioni condivise da più occhi. I tunnel vegetali dipinti negli anni trascorsi nello Yorkshire per stare vicino alla madre, prolungano la loro freschezza e i loro fruscii sin dentro la sala dove siamo. L’apice viene raggiunto dall’installazione video delle quattro stagioni, ciascuna filmata con nove videocamere in lento avanzamento, lungo la stessa strada di campagna. Il visitatore vede il paesaggio muoversi attorno a sé: siamo lì, ma stiamo comminando dentro. Una magia che non può non conquistare.

Con la fantastica idea della pittura su iPad Hockney fa un altro passo in là, nella direzione intrapresa in quel lontano 1963. La pittura, magicamente fluida e immateriale, fa fiorire la giornata dei destinatari che la mattina se la vedevano pervenire. È pittura che non esiste e che insieme è dappertutto. Una finestra sulla quale ciascuno può affacciarsi, magari trovandosi a schiacciare naso e polpastrelli proprio come era accaduto a John Kasmin. È pittura talmente felice da non essere neppur più percepita come virtuale. Purtroppo in mostra è stato commesso l’errore di presentare le immagini molto ingrandite rispetto al formato così furtivo e discreto in cui erano state concepite e realizzate. Per di più le immagini ci vengono mostrate nel loro farsi, mentre per noi tutti erano nate già «fatte». Scelta sbagliata, che non è la sola in una mostra che non vuole farci mancare nulla (straordinarie le due sezioni dei disegni) ma che ultimamente è prigioniera di un’ansia celebrativa, motivata dall’occasione degli ottant’anni del maestro. Alla quale è stato sacrificato ogni approfondimento documentario: per fare un esempio, non vediamo nulla delle pur decisive scenografie che hanno segnato la parabola di Hockney. Peccato, perché un piglio più laboratoriale avrebbe restituito meglio la vitalità sperimentale di un artista al quale non si addice la retorica.