Bis dell’incantevole Kristen Stewart in un film europeo: diretta dallo stesso regista, Olivier Assayas, che aveva trasformato tre anni fa la divetta-silhouette della saga Twilight e di Biancaneve e il cacciatore in attrice a tutto tondo in Sils Maria, a fianco di Juliette Binoche, eleggendola di colpo a sua nuova musa. Rieccola perciò in Personal Shopper, premio alla regia allo scorso Cannes, che dal 13 aprile Academy Two distribuisce in Italia. Il titolo originale qualifica una cavia di lusso: chi ha la delega di comprare abiti stratosferici per chi, stratosferica in carriera e in banca, non ha il tempo per farlo. Sdoppiata in un lavoro che detesta, la ragazza, americana, trasferitasi per questo incarico a Parigi, vive un ulteriore sdoppiamento, tra banalità della routine de luxe e fantasmi dell’inconscio, tra aldiqua e aldilà: perché, in apparizioni improvvise, la sua pratica dello spiritismo le fa ‘ritrovare’ il fratello gemello, da poco scomparso. O, almeno, crede che sia così. Personal Shopper: storia di fantasmi – di quelli veri, che son dentro di noi – o illusorio riscatto, giorno dopo giorno, dalle frustrazioni quotidiane? O, più semplicemente, per il regista francese, il piacere di tornare a lavorare con la Stewart? «Devo ammettere che è per lei che ho scritto il film. L’idea di partenza è stata la storia d’una ragazza d’oggi in lotta con l’attuale idiozia del consumismo, che cerca una fuga, una consolazione nel contatto con la parte perduta della sua vita», risponde Assayas, 62 anni, capelli grigi corti con distratta frangetta biforcuta. Ha lo sguardo triste e entusiasta dei suoi maestri della Nouvelle Vague, Truffaut, Godard, Rohmer, Rivette, che l’hanno preceduto anche nelle fruttuosa staffetta tra critica e regia e nella predilezione per le belle protagoniste ‘en fleur’: formatosi lui pure sulle temute pagine degli ancora mitici Cahiers dei primi anni 80, dove trasborda per la prima volta la passione per il cinema kung-fu, passato alla regia nell’86, fin dai primi film Assayas miscela vitalità rock e bellezza adolescente, affermandosi nel ‘94 con L’Eau froide (con Virginie Ledoyen), miglior tassello della serie Arte Tous les garçons et les filles de leur âge, seguìto due anni dopo dal successo di Irma Vep (anagramma di ‘vampire’, eroina del cine-pioniere Louis Feuillade), triplice omaggio a cinema muto, Nouvelle Vague e Hong Kong, da cui proviene la giovane star Maggie Cheung, immediata compagna e poi sposa (dal ’98 al 2001), cui da tempo s’è sostituita l’attrice e regista Mia Hansen-Love (autrice di L’avenir, con Isabelle Huppert, Orso d’argento 2016). Ospite a Roma dei Rendez-vous del nuovo cinema francese (che continua a ignorare i suoi più originali gioielli, i lungometraggi d’animazione), atteso protagonista a Lucca della master class a chiusura, il 9 aprile, di Europa Cinema, il regista di pellicole seducenti declinate al femminile, ma anche di film-monstre come Carlos (riproposto nell’integralità delle 5 ore e mezza, dopo Cannes 2010, solo al Festival di La Rochelle due anni fa), si sottomette cordiale alle domande di rito ai Rendez-vous Unifrance di Parigi.

Partiamo dalla Kristen Story?

Credo d’aver contribuito a evidenziarne le qualità artistiche, se non, addirittura, a lanciarla come interprete. Era già star, ma il cinema americano ha dovuto aspettare il mio Sils Maria per scoprire che sa anche recitare. Nessuno, in patria, s’era accorto che era perfetta pure nei film precedenti! È un’attrice che ha carisma di diva e, nello stesso tempo, sa rimanere la ragazza della porta accanto. Per Personal Shopper, tutto centrato su di lei, ho preferito aspettarla, dato che era impegnata in due film d’autore, uno dopo l’altro, Cafe Society di Woody Allen
 e Billy Lynn. Un giorno da eroe di Ang Lee: a riprova che, in Francia, la sua carriera americana aveva trovato la svolta giusta. Tra l’altro, proprio il 9 compie 27 anni.

Nella definizione del personaggio, in continua altalena tra prove d’abito e d’identità, han per caso influito «Les bonnes» di Genet?

L’ossessione della protagonista è diversa da quella delle due domestiche della pièce. Il nevrotico cambio d’abiti esprime la sua imprecisione, o indecisione, genetica: un tentennamento verso l’accettazione della femminilità. In Les Bonnes, è questione d’una differenza, e d’una rivalsa, sociale. Nel film, invece, ogni travestimento, ogni finzione è tentativo di uscire da una condizione di solitudine, umiliata da un lavoro stupido, e di trovare autenticità, un rapporto chiaro con sé stessa.

Lo spiritismo pervade il film: perfino materializza i fantasmi. Perché?

Il fantasma è la proiezione di quel che sentiamo. Per la protagonista è l’«altro io», il fratello gemello scomparso. Ho voluto superare il manicheismo che vige nel cinema Usa, per cui quanto è visibile è buono, positivo e quanto è invisibile è cattivo, ostile. Diceva André Malraux: ‘Il XXI secolo sarà religioso o non sarà’. Sentiamo tutti il bisogno d’un cambiamento radicale. Io non sono religioso, ma credo nella dimensione metafisica.

Vi fa riferimento il prossimo film, «Idol’s Eye»?

 È un progetto ancora in trasformazione. Dopo averlo accantonato per oltre un anno, l’ho ripreso in novembre e lo realizzerò quest’anno a Toronto. Degli interpreti confermati dall’inizio, son rimasti Robert Pattinson e Rachel Weisz. Invece, Robert De Niro, previsto in un primo tempo, sarà sostituito da Sylvester Stallone, di cui sono un grande fan.

Di nuovo un confronto tra cinema francese e standard americani?

Per almeno tre quarti, un film Usa è girato su fondo verde, in funzione degli effetti speciali in postproduzione: l’attore è sempre più coatto, si diverte sempre meno. Il cinema Usa è ormai meccanizzazione, industria. Attori della notorietà della Stewart, anche per un semplice primo piano, si ritrovano circondati da 18 camion, in una strada completamente bloccata, con tipi che abbaiano in ogni direzione nei loro walkies-talkies. Una logistica delirante, che li priva della possibilità che avevano una volta di lasciare di tanto in tanto le riprese di una Major per girare in un film d’autore. Questa ‘libertà condizionata’ non esiste più nel cinema Usa. Anche il rapporto con il prodotto finale non è più lo stesso. Kristen era sorpresa che io realizzassi l’intera sceneggiatura e, ancor più, che la traducessi in immagini senza diciotto ‘mani’ di montaggio. Quando poi s’è vista nei miei film, è rimasta stupefatta di trovarvi tutte le sequenze che aveva girato: ‘È la prima volta!’.