Non una punizione, ma una possibilità di riscatto e di conoscenza. Quando Edward Mukiibi, adesso 36enne, andava a scuola, in Uganda, l’orticoltura era un castigo per chi arrivava in ritardo o parlava lingue diverse dall’inglese. Lui che spesso in castigo ci finiva, a casa, invece, amava andare nell’orto con la mamma e i fratelli. A raccogliere i frutti della terra e a seminarli. «Mi promisi che crescendo avrei cambiato questo sistema, facendola diventare un’attività produttiva e di apprendimento. Ci provai già da piccolo con gli insegnanti e la direzione della scuola, ma non fui ascoltato». Dopo ci è riuscito, grazie ai suoi studi in agronomia, al suo impegno per l’agricoltura rigenerativa, al progetto Disc (Developing innovations in school cultivation), che ha inventato, e all’incontro con Terra Madre e Slow Food, di cui da sabato è presidente, prendendo le redini dal fondatore Carlo Petrini. Un’associazione internazionale, o meglio ora una fondazione (visto il recente cambio statutario), presente in 160 paesi nel mondo con l’impegno di un cibo «buono, pulito e giusto».

Nato sulle sponde settentrionali del lago Vittoria, è un agronomo laureatosi alla Makerere University di Kampala e, poi, specializzatosi all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Cuneo). È anche educatore nel campo dell’alimentazione e dell’agricoltura, impegnato nella diffusione e promozione di progetti sociali; il suo lavoro ha ottenuto riconoscimenti internazionali.

Sabato scorso il congresso internazionale di Slow Food, tenutosi a Pollenzo, ha segnato una svolta epocale. Come ha accolto la nomina a presidente di un movimento così diffuso?

È stato un momento molto emozionante e sono orgoglioso della decisione presa dal congresso e del ruolo che mi è stato conferito. Il nuovo board, che include anche Carlo Petrini come membro di diritto in quanto fondatore e dal quale ho imparato molto, è composto da persone con provenienze culturali e geografiche molto differenti. Ed è un bene che sia così. Mi sento a mio agio e più forte con loro. Grazie alle esperienze e competenze di ciascuno possiamo far crescere Slow Food ancor di più. Questo periodo, anche perché arriviamo da una pandemia e ci troviamo in una situazione globalmente critica, è quello giusto per ricostruire, rafforzare e rinnovare la nostra azione.

Ha avuto fin da piccolo un rapporto stretto con l’agricoltura e all’università, quando decise di farla diventare una missione, si scontrò con i dettami dell’agricoltura intensiva in un progetto sul mais ibrido. Cosa successe?

Sono nato in una tipica famiglia numerosa africana, che ha sempre avuto un appezzamento e fin da piccolo ho aiutato i miei genitori. All’Università ero uno degli studenti più attivi e mi proposero un lavoro ben pagato per promuovere tra i contadini i semi ibridi di mais, che sarebbero dovuti essere molto resistenti alla siccità. All’inizio del 2007 una grave crisi idrica colpì il raccolto e andammo a verificare direttamente dagli agricoltori, che avevano acquistato il mais, i risultati. Non erano affatto buoni e le perdite ingenti. Gli agricoltori erano frustrati e senza altre fonti di sostentamento, avendo dedicato la maggior parte dei terreni esclusivamente al mais. Rimasi profondamente deluso dai danni provocati dal sistema convenzionale. Mi scusai con i contadini e iniziai una profonda riflessione. Nel fallimento di quel progetto universitario mi sono sentito solo. Sapevo, però, che dovevo prendere un’altra strada, nonostante fosse controcorrente rispetto al pensiero dominante. Questo è stato il mio giro di boa.

Su quali basi ha deciso di cambiare strada puntando sull’agricoltura rigenerativa?

Ho iniziato a lavorare con i contadini capendo che bisognava ricostruire il sistema agricolo locale, basato sulle risorse, le conoscenze e i metodi tradizionali. Dovevamo rigenerarlo per renderlo più resiliente. E lavorare sui principi dell’agroecologia e della permacultura, comprendendo che la biodiversità e il recupero di varietà locali erano i migliori strumenti per combattere la siccità e per affrontare i problemi che il continente africano riscontra tutti i giorni.

In una sorta di intesa a distanza, c’è stato l’incontro con Terra Madre e Slow Food. Quando è avvenuto?

Elaborando un’idea di un’altra agricoltura possibile ho cercato contatti con comunità che praticassero principi simili. E mi sono imbattuto nella Fondazione Slow Food per la biodiversità. Nel 2008, sono stato invitato a partecipare all’evento di Terra Madre, a Torino. È stata un’esperienza di gioia perché ho scoperto di non essere solo. E ho iniziato così a lavorare per il progetto «Orti in Africa».

E ha anche potuto realizzare il suo sogno da bambino. Ci spiega meglio il progetto?

L’obiettivo è realizzare orti buoni, puliti e giusti nei villaggi e nelle scuole in Africa. Proprio negli istituti scolastici come il mio, dove la pratica veniva utilizzata come punizione. Significa garantire alle comunità cibo fresco e sano, diffondere consapevolezza e promuovere i principi dell’agricoltura rigenerativa: ruotare le coltivazioni, riportare la terra al suo stato naturale per dare la possibilità al suolo di arricchirsi autonomamente senza l’uso di pesticidi o fertilizzanti. Un metodo che applico ovviamente anche nella mia azienda agricola, dove ho eliminato i pesticidi e non uso prodotti chimici da cinque anni. La produttività è molto aumentata. Pure la varietà: in un ettaro ci sono più di 15 specie differenti.

Un’agricoltura iniqua e intensiva è un danno per il clima. Cosa fare allora?

Vero, l’agricoltura convenzionale è uno dei maggiori colpevoli della situazione in cui ci troviamo, perché è un sistema estrattivo di risorse e distruttivo, perché non rigenera. Dobbiamo fare sentire ancora più forte la nostra voce, per far sì che gli ecosistemi siano preservati, quelli marini, le paludi, le montagne. Un sistema alimentare sostenibile deve prevedere anche una riforestazione.

Manca poco al meeting europeo di Fridays for Future a Torino, qual è il vostro rapporto con le organizzazioni ambientaliste?

È forte, lo testimonia il fatto che Carlo è stato invitato a un incontro con Greta Thunberg e Luciana Castellina. Combattiamo contro il cambiamento climatico e per lo stesso risultato. I leader delle nostre sedi locali sono spesso parte dei movimenti ecologisti. Con il nuovo board abbiamo intenzione di rafforzare i legami e crearne di nuovi. Stiamo attualmente lavorando con movimenti di agroecologia in Africa dell’est e in America Latina per costruire insieme un sistema più resiliente. Continuiamo a camminare insieme.