Nella giornata più nera del governo la parola più ripetuta è «Crisi». Nessuno la dà per certa. Tutti per probabilissima. Impossibile arrivare a conclusioni diverse quando uno dei due vicepremier, il leghista Matteo Salvini, rinfaccia al collega di aver «tradito gli elettori col voto per von der Leyen», di essere «già al governo con il Pd, per ora a Bruxelles», di aver «perso la mia fiducia anche personale». O quando l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, replica accusando il socio di alzare i toni solo per «coprire il caso dei fondi russi» e poi, in un vertice con i capigruppo e i dirigenti pentastellati rincara: «Siamo stati colpiti alle spalle. E’ gravissimo».

ENTRAMBI I DUELLANTI parlano apertamente di crisi: «Se la Lega vuol far cadere il governo lo dica», tuona Di Maio. «Abbiamo solo preso atto della svolta storica dell’M5S» risponde da Hensinki Salvini, ma aveva già chiarito che «andare avanti con chi ti insulta e dice solo no è difficile», che la finestra elettorale resterà aperta anche oltre il 20 luglio, che la crisi comporterebbe necessariamente elezioni anticipate e che di ciò «è garante Mattarella». Per sottolineare ulteriormente la gravità della situazione, il leghista annuncia anche che diserterà sia il nuovo vertice sulle autonomie che il consiglio dei ministri.

Il premier Giuseppe Conte evita di entrare nella rissa. Su Repubblica di ieri campeggiava una sua lettera densa di spiegazioni e molto critica nei confronti della Lega, sia per il voto di Strasburgo sulla presidente della Commissione europea che per la decisione di Salvini di disertare il Parlamento sul caso dei fondi russi, però con diplomazia e senza una parola di troppo. Non basta a evitare l’irritazione conclamata e sbandierata di Salvini: «Non ho apprezzato la lettera in cui si parla di tradimento. Non mi piacciono le sfide all’insulto». Anche se per la verità di «tradimento» parlava solo il titolo, del tutto gratuito, affibbiato dal quotidiano a un intervento su tutt’altro tono.

[do action=”quote” autore=”Luigi Di Maio”]Siamo stati colpiti alle spalle, le offese e le falsità dette nelle ultime 48 ore contro il M5S non hanno precedenti. Quel che è accaduto è gravissimo[/do]

MA QUESTO, IN FONDO, è un particolare. L’irritazione fortissima di Salvini, nei confronti di Conte persino più che di Di Maio deriva soprattutto dal voto di Strasburgo. A gestire quella trattativa è stato proprio Conte. Si è rivelata una trappola per la Lega. In tutta evidenza il presidente del consiglio non ha infatti chiesto a Angela Merkel, per ottenere i voti della maggioranza italiana, di garantire un discorso della candidata tale da permettere alla Lega di sostenerla. Non ha difeso il voto comune della maggioranza italiana, cosa che avrebbe obbligato Ursula von der Leyen a evitare l’attacco frontale contro il Carroccio pena l’essere bocciata. Così facendo, per imperizia o per calcolo, ha precipitato la Lega in un vicolo cieco. «Cosa dovevamo fare? Votare chi ci schifa?», esplode Salvini. Non gli si può dare torto. Persino la vicenda del commissario leghista è diventata una via crucis. Giancarlo Giorgetti è fuori gioco. In mattinata i 5 Stelle rinfacciano alla Lega la pretesa di piazzare un loro commissario dopo aver votato contro la presidente. Salvini sbotta: «Chi se ne frega del commissario? La coerenza è più importante». Di Maio la prende malissimo: «Devono indicare il commissario invece. Hanno vinto le europee. E’ loro responsabilità».

IL RUSSIAGATE È PIOGGIA sul bagnato. Quando mercoledì prossimo Conte sarà al Senato le sue parole potrebbero essere il detonatore che innesca la crisi. I renziani vorrebbero calcare la mano presentando subito la mozione di sfiducia. La maggioranza preferisce aspettare il discorso del premier. I leghisti, off the record, danno le probabilità di crisi al 70%, anche se assicurano di voler prima portare a casa il dl Sicurezza bis, che sarà approvato al Senato intorno all’8-9 agosto. Ieri Giorgetti ha incontrato Mattarella, oggi, probabilmente, salirà al Colle lo stesso Salvini. In ballo c’è la sorte della legislatura se la crisi arriverà davvero.

Il capo dello Stato resterà in quel caso fedele al suo stile. Non forzerà la mano. Non cercherà di imporre maggioranze alternative, come avrebbe fatto Napolitano. Cercherà di capire se ci sono spiragli per evitare il voto, adopererà la moral suasion ma si scoprirà solo se avrà più che ragionevoli probabilità di successo. Altrimenti eviterà una sfida in campo aperto che ritiene sarebbe disastrosa per il Paese. La palla starà dunque ai partiti: all’M5S, che probabilmente, checché ne dica oggi, sarebbe disponibile a una maggioranza alternativa e al Pd, che appare al momento troppo lacerato e diviso per impostare una strategia politica. I segnali che partono da quella sponda, per ora, non sono di buon auspicio per la sopravvivenza della legislatura se Conte cadrà.