La Deposizione nel sepolcro della collezione Saibene è un dipinto tanto bello e misterioso quanto poco conosciuto. Proprio come il suo autore, un pittore spagnolo di nome Johannes – cioè Giovanni o per meglio dire Juan – vissuto tra Quattro e Cinquecento, il cui catalogo conta per il momento una ventina di opere, in parte note solo da fotografie e ancora da rintracciare; Johannes è il beniamino di molti di noi, uno dei protagonisti, pressoché ignoti al grande pubblico, del nostro ricchissimo ma poco divulgato Rinascimento artistico.
Il quadro Saibene è il suo capolavoro, un distillato delle esperienze figurative e dei viaggi compiuti fino a quel momento: su una consolidata base peruginesca e centro-italiana si innestano freschi ricordi belliniani e bramantiniani, il naturalismo ritrattistico di matrice spagnola, i leonardeschi moti dell’anima e una vena stralunata e anticlassica che segnò, come uno stigma, le creature femminili da lui predilette.
È da questa grande tavola, firmata IOA(N)ES ISPANUS P(INXIT), che Federico Zeri avviò nel lontano 1948 la ricostruzione per via stilistica dell’identità figurativa dell’artista, uno dei numerosi pittori iberici che migrarono in Italia in cerca di fortuna alla fine del Quattrocento – basti ricordare negli stessi anni lo scorrazzare su e giù per la Penisola di Pedro Fernández da Murcia, il pittore a lungo noto come Pseudo Bramantino. Nonostante l’accanimento degli studiosi, che hanno accresciuto nel tempo il corpus delle sue opere, rimangono tuttora ignoti la precisa identità anagrafica di Johannes – figlio di un Giacomo (Jaime) – e la località spagnola di origine.
È merito di Stefania Castellana avere dato alle stampe la prima monografia dedicata al pittore girovago: Johannes Hispanus (Edizioni del Miglio, pp. 175, tavv. a colori e in bianco e nero), al meritorio prezzo politico di 25,00 euro. Il libro, ricco di novità, offre finalmente un’affidabile ricostruzione del percorso dello spagnolo e fa il punto degli studi sul pittore; non mancano le nuove attribuzioni: di notevole importanza è l’individuazione della sua mano in un affresco a Roma, nella Sala delle Sibille nei Palazzi Vaticani, e in una malconcia tela, già anta dell’organo di Sant’Elena in Isola a Venezia, oggi alle Gallerie dell’Accademia, che conferma e sostanzia la presenza del pittore nelle due città.
Il saggio nasce dalla tesi di dottorato che la studiosa, allieva a Lecce di Marco Tanzi, ha discusso presso l’Università del Salento. Proprio Tanzi curò nel 2000 a Viadana – cittadina sulle rive del Po, tra Mantova e Parma, che conserva un’enigmatica pala d’altare del pittore spagnolo, di cui s’ignora la provenienza originaria – la più completa rassegna dedicata all’artista, già quasi una monografia, che si poneva l’obiettivo, tessendo una fitta rete di relazioni intorno all’opera viadanese, di rintracciare le origini del «classicismo precoce» che connotò anche le opere di Hispanus al suo arrivo al nord, in parallelo con le coeve esperienze di altri protagonisti – fra tutti il cremonese-ferrarese Boccaccio Boccaccino – della felice congiuntura creativa che coinvolse un pezzo di Italia settentrionale a cavaliere tra i due secoli.
Castellana, come un abile detective alle prese con minimi indizi, coniugando la corretta lettura dei pochi documenti noti, spesso viziati dall’omonimia di Johannes con un altro pittore iberico, il peruginesco Giovanni di Pietro (detto, appunto, lo Spagna), attivo soprattutto in Umbria, e l’esercizio di una rigorosa connoisseurship, riesce a ricostruire le tappe dell’intricato percorso di Hispanus attraverso la Penisola: dalla Firenze medicea, dove almeno dal 1492 si formò sotto l’ala di Pietro Vannucci detto il Perugino, allora il più famoso e ricercato pittore d’Italia, alla Roma del valenziano Rodrigo Borgia, il papa spagnolo Alessandro VI, alla Venezia pregiorgionesca, ancora dominata da Giovanni Bellini, dove si stabilì tra 1496 e 1497, fino all’approdo, passando forse per Ferrara al tempo delle nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso I d’Este (1502), nelle ospitali Marche.
Qui Hispanus, che percorse la via adriatica seguita prima e dopo di lui da altri pittori provenienti dalla Serenissima (i fratelli Carlo e Vittore Crivelli, Antonio Solario, Lorenzo Lotto), è documentato dal 1506 al 1538. Vi lasciò opere che influenzarono gli artisti locali, alcune delle quali per nostra fortuna ancora conservate nei luoghi per cui furono dipinte – una pala a Montecassiano, la cui cronologia è stata chiarita dagli studi di Andrea Trubbiani, e affreschi in Palazzo Bonafede a Monte San Giusto, in passato non a caso attribuiti al bolognese Amico Aspertini, artista «bizzarro» con cui lo spagnolo mostra notevoli affinità –, e forse vi concluse felicemente la sua avventura terrena.