Non amo che i miei testi contengano termini astratti. La parola ‘dittatura’, per esempio, non la scriverò mai». Leggendo lo splendido La volpe era già il cacciatore (traduzione di Margherita Carbonaro, Feltrinelli, pp. 240, € 18,00), si capisce come Herta Müller avesse ben presente fin dal suo primo romanzo il precetto cui si sarebbe attenuta con lodevole rigore in tutte le prove successive. Centrato su quel tema che avrebbe pervaso ossessivamente alcune tra le sue opere più rilevanti – e cioè la vita quotidiana sotto il regime di Nicolae Ceausescu – questo tour de force stilistico pubblicato in Germania nel 1992 dimostrava già come per l’autrice romeno-tedesca l’unicità del dato autobiografico potesse essere trasmessa soltanto in forma di immagini di spietata concretezza.

Non alla ingannevole universalità di concetti generici, bensì a percezioni vivide che chiamano in causa tutti e cinque i sensi è consegnata la vicenda di Adina, maestra elementare in una città senza nome, che alla vigilia del crollo del regime comunista a causa delle sue frequentazioni viene presa di mira dalla polizia politica. Un giorno la protagonista esce di casa e al ritorno scopre che alla pelle di volpe da lei utilizzata come scendiletto è stata tagliata con una lametta una delle zampe posteriori; l’indomani toccherà alla coda e poi alla testa, finché la povera bestiola non sarà completamente smembrata. Mentre non è difficile individuare dietro queste progressive amputazioni un tentativo di intimidazione, la progressiva amputazione delle parti della volpe – zampe, coda e infine testa – sembra adombrare una metafora della mutilazioni esistenziali inferte ogni giorno dal regime ai destini umani.

Assuefatti al controllo
Tuttavia, a terrorizzare la controfigura dell’autrice non è solo questa irruzione minacciosa nella sua intimità domestica, bensì anche l’atmosfera claustrofobica che aleggia sulla città, tra atti quotidiani di violenza e prevaricazione. Fuggita nella Germania Federale nel 1984 a causa proprio del suo rifiuto a collaborare con la Securitate, Müller restituisce qui l’onnipresenza del controllo poliziesco attraverso gli occhi ora atterriti, ora spenti dall’assuefazione dei suoi personaggi, dietro i quali si intuiscono facilmente prototipi reali: Paul, il medico ex amante di Adina, Ilije, soldato di stanza «là dove il Danubio taglia in due il paese», che accarezza progetti di fuga, Albert detto Abi che dà sfogo al suo spirito ribelle componendo canzoni ispirate a una blanda sedizione. A fare da contraltare alla figura caustica e spigolosa della protagonista è soprattutto Clara, la sua migliore amica, che a un certo punto intesse una relazione con Pavel, marito insoddisfatto e colonnello della polizia politica. Sarà proprio lei a dare una svolta risolutiva alla trama, avvertendo Adina e Paul dell’ondata di arresti che nel dicembre 1989 precedette la caduta di Ceausescu.

Senza mai cadere a superflui moralismi, l’autrice immerge il lettore in un universo soffocante dove «…ogni giorno e ogni notte e il mondo si dividono in quelli che interrogano e tormentano, e quelli che tacciono e tacciono». Di questa certezza angosciosa, il mantra attinto a Venedikt Erofeev «Non fa niente, non fa niente», ripetuto più volte e posto a esergo del romanzo, non riesce a venire a capo.

Fin qui si tratta di un soggetto su cui Müller tornerà più volte, e soprattutto in Oggi avrei preferito non incontrarmi, forse il libro in cui – complice anche l’assunzione della prima persona – la sua scrittura altrimenti impervia cede alla tentazione di una maggior trasparenza. Ma a rendere La volpe era già il cacciatore un testo davvero notevole è il suo massimalismo stilistico: ogni frase potrebbe essere citata a riprova del convincimento espresso nella coeva dichiarazione di poetica del 1991 Come la percezione inventa se stessa per cui il ricordo tanto più assomiglia al fatto rammemorato quanto più viene rielaborato sulla pagina. È un principio che l’autrice, nata nella regione del Banato nel 1953, ha tratto da Jorge Semprún che, nel mettere su carta la propria esperienza di sopravvissuto a Buchenwald, aveva sottolineato non solo l’inevitabilità, ma anche l’auspicabilità dell’irruzione nel racconto di elementi finzionali: «la verità del ricordo scritto dev’essere inventata».

In maniera analoga, i traumi legati a quella «scuola di paura» che il regime dittatoriale aveva stabilito in Romania acquistano una loro dicibilità a distanza di anni grazie a un processo di trasfigurazione e ricomposizione che l’autrice avvicina non a caso alla tecnica da lei ampiamente coltivata del collage. Per Müller anche la scrittura ha molto a che vedere con l’accostamento di oggetti apparentemente incompatibili che nella loro libera associazione sulla pagina si affermano come realtà a sé, riflettendo così la complessità delle nostre impressioni. Da qui la tendenza dell’autrice a procedere per accumulo di metafore e sinestesie, a disintegrare ogni dato della realtà esterna nella percezione spesso alterata dei suoi personaggi, a restituire il succedersi degli eventi nella ripetizione ossessiva di immagini, formule, refrain.

Nella Volpe questa trama si intesse pagina dopo pagina attorno a oggetti d’uso quotidiano, ad avvenimenti in teoria insignificanti che, ripresentandosi ciclicamente, assumono nell’immaginazione ormai paranoica della protagonista contorni sempre più inquietanti. Agli occhi di Adina nessun elemento della realtà è slegato dall’altro, tutto può inaspettatamente ricombinarsi per mantenere sempre in moto la giostra della tensione.

Ciò che luccica, vede
Succede così – per limitarci alla sola vegetazione della città anonima – che gli alberi sulla pubblica piazza subdolamente trattengano «per qualche istante le ombre in movimento dei tram, come se appartenessero a loro». Oppure che «i rami in alto, anche senza foglie», ascoltino. O ancora, come racconta un bambino alla maestra, che i tronchi contengano cassetti:«Mia madre ha detto che in questi cassetti c’è sempre un orecchio (…) L’orecchio ascolta». Non meno perturbante è il brillio delle superfici riflettenti, da cui la protagonista si sente spiata e osservata: «Ciò che luccica vede». In uno scambio continuo tra animato e inanimato, gli oggetti si trasformano, cambiano faccia, coinvolti nei meccanismi persecutori congegnati dal regime. Come se tutta la realtà, assoldata dalla Securitate, collaborasse a un unico, gigantesco apparato di controllo e sopraffazione.