Quello che succede lo scopriamo subito, nelle primissime sequenze, quando il marito di Sandra arriva a casa brandendo un mazzo di soldi: i suoi risparmi nascosti per scappare le urla in faccia, forse stanca di quelle che presumiamo ancora prima di vederle essere continue violenze. Poi inizia a massacrarla di botte mentre lei fa appena in tempo a dire la parola segreta alla figlioletta maggiore: «Black Widow», Vedova nera, nel loro codice corri più in fretta che puoi e chiedi a qualcuno di chiamare la polizia. L’altra più piccola si è chiusa nella casetta dei giochi, testimone da lì di ogni calcio e di ogni pugno.

LE RITROVIAMO in un hotel di lusso, alloggiate dai servizi sociali, dove non hanno diritto d’accesso dall’entrata principale: l’uomo ha avuto un ordine restrittivo nei confronti di Sandra ma può vedere le bambine ogni fine settimana. La grande è contenta, l’altra rifiuta gli incontri. Sandra intanto lavora ovunque ingollando codeina contro i dolori alla mano spezzata dall’uomo, e cerca una soluzione al loro futuro. Ma Herself – La vita che verrà, il film di Phyllida Lloyd (The Iron Lady) non è – non solo almeno – un film sugli abusi domestici che tanto spesso finiscono col femminicidio o con la strage anche dei figli, pure se il tema è centrale e la regista – grazie anche alla complicità della scrittura di Clara Dunne (insieme a Malcolm Campbell), che interpreta intensamente il personaggio di Sandra, lo sa affrontare con delicatezza e precisione, illuminando le questioni spesso tralasciate. Che riguardano burocrazia, servizi sociali, patriarcato – nella cattolica Irlanda del film e ovunque – e quelle «domande giuste» che non vengono poste dal tribunale, col giudice che invece di chiedere perché siete rimasti insieme non chiede mai: «perché lui ha continuato a picchiare?».

Da qui Lloyd sposta lo sguardo sulla figura di Sandra mettendo al centro della narrazione quello che è il suo difficile e faticoso confronto quotidiano con il mondo e con sé stessa. L’idea della giovane donna di costruirsi da sola una casa si fa dunque metafora – e controcampo – della sua ricostruzione intima, personale, di sé che riguarda la relazione con le figlie adoratissime ma prima ancora la progressiva conquista di una sicurezza, di una libertà emozionale dall’esperienza della violenza. Una ricostruzione che procede pian piano, e non senza inciampi, come i lavori di quella casetta che inizia a mettere insieme nel giardino della persona per la quale lavora come domestica, e dove sua madre aveva lavorato prima, una dottoressa con molti dolori anche lei sepolti nel cuore.
E che trova forma grazie all’aiuto di tante persone diverse, la ragazza squatter insieme a lei cameriera al pub, gli amici di questa, un anziano e malmesso (di salute) muratore che lavorava col marito, il figlio dell’uomo, la mamma di una compagna di classe delle figlie: una comunità strana, dove non mancano le tensioni e anche i litigi, nella quale però ciascuno porta qualcosa e prende qualcosa per stare meglio.

«METHAL» lo chiama questo sentimento il vecchio manovale, che significa aiutarsi a guarire reciprocamente, una solidarietà che vale più di qualsiasi legame famigliare obbligato, in cui le persone si scelgono, che si fa resistenza al sistema, alle economie, alla solitudine. E che appare per questo quasi rivoluzionaria. Proprio grazie al confronto con una dimensione collettiva il personaggio di Sandra può vivere tra molte sfumature, sfuggendo a quell’immagine spesso condizionata dalla necessità del tema in cui sono racchiusi i personaggi femminili di vicende come questa. Ne conosciamo la determinazione e il trauma, la fatica e la debolezza, il rimpianto e la paura: senza voler «dimostrare» la regia prova (e riesce) a affrontare una realtà importante a distanza ravvicinata, con empatia, senza semplificazioni.