«In Guatemala siamo vittime di un patto nefasto tra istituzioni di governo e grandi multinazionali», dice al manifesto Daniel Pascual Hernandez, Coordinatore generale del Comité de Unidad Campesina (Cuc) e membro dell’organizzazione internazionale Via Campesina.

La sua organizzazione è una di quelle che hanno partecipato all’Incontro mondiale dei movimenti popolari, in corso a Roma e voluto da papa Francesco. Lo abbiamo incontrato in una pausa del convegno. La sua è una storia di resistenza e repressione, purtroppo diffusa in quella parte di America latina non ancora investita dal vento nuovo che attraversa gran parte del continente.

Qual è la situazione oggi in Guatemala?

In 522 anni i popoli originari hanno subito genocidi e spoliazioni, nel corso di ripetuti tentativi per distruggere la nostra cosmovisione, il nostro modo di produzione ancestrale. Dagli anni Sessanta ai Novanta abbiamo scontato la ferocia di una guerra di Stato che ha comportato 250.000 morti e scomparsi, ma ora è in corso un nuovo processo di colonizzazione che mira al possesso e allo scempio dei nostri territori. Responsabile è uno stato patriarcale e oppressore che piega le leggi per perpetrare povertà ed esclusione.

Il presidente Otto Pérez Molina, detto «Mano dura» è stato un personaggio attivo durante la guerra civile, e viene chiamato in causa in alcuni processi. A che punto stanno le cose?

È in atto una lotta frontale per il recupero della memoria storica, in termini politici ma anche giuridici: una battaglia per portare in tribunale vari casi di genocidio e di massacri che finora hanno soprattutto trovato ascolto nelle sedi internazionali. Ora, però, grazie al coraggio di alcuni magistrati democratici convinti dell’imparzialità della giustizia, si stanno celebrando due processi per 2 casi di genocidio, stupri, femminicidi e narcotraffico, che hanno messo in luce la responsabilità di molti funzionari pubblici compreso quella dell’attuale presidente, delle oligarchie nazionali e anche dei paesi europei che hanno finanziato quella guerra. Uno riguarda l’ex presidente de facto Rios Montt, un golpista, figura paradigmatica di quel passato e molti altri…
Una catena di comando che vede coinvolti ex ufficiali, imprenditori, politici e che porta fino al presente. Un ex ufficiale dell’esercito chiama in causa l’attuale presidente Pérez Molina, allora tenente colonnello, conosciuto con lo pseudonimo di Tito Arias. Processi che stanno toccando grandi interessi e per questo scatenano una reazione scomposta e feroce.

Un nuovo riassetto coloniale, diceva. In cosa consiste?

Nel 2005 il governo ha firmato un trattato commerciale con gli Usa, e dal 2006 si è data la stura a una serie di permessi di sfruttamento che consentono alle multinazionali di imperversare sul nostro territorio senza alcun controllo: imprese petrolifere, idroelettriche, agroindustriali, cementifere che devastano montagne, valli e campagne portando sfruttamento del lavoro, espulsioni e miseria. Sono statunitensi, canadesi, francesi, spagnole, italiane… E per imporre i loro progetti non arrivano da sole, ma accompagnate da esercito e polizia e dalle imprese di sicurezza private, che hanno mano libera nelle aggressioni e uccisioni di chi si oppone. A dare copertura a tutte le operazioni pensa il parlamento, erogando leggi specifiche che tolgono diritti ai lavoratori e ampliano quelli delle imprese, che non devono rispondere a nessuno. Il governo si serve di una facoltà costituzionale, prerogativa del presidente: quella di dichiarare lo stato di emergenza in diverse zone del paese. In questo modo si commettono irruzioni nei villaggi, arresti di massa e massacri. Sono sorti gruppi neofascisti, chi si oppone è perseguito come terrorista e condannato a 170 anni di carcere.

Qual è stata la sua esperienza in proposito?

Ho tre inchieste in corso, tutte costruite sul nulla e molto gravi. In un caso vengo accusato di associazione sovversiva e terrorismo, sono state fabbricate prove false, con video costruiti e carichi penali senza fondamento. Purtroppo è una pratica corrente.

Partiti della sinistra e organizzazioni indigene hanno provato a farsi avanti per la riforma agraria. A che punto sono?

Sì, e il 15 ottobre del 2015, quando ci saranno le elezioni, ci riproveranno. Il punto è che la sinistra non riesce a raggiungere grandi consensi e che la maggioranza della popolazione non crede che possa ottenere qualcosa dal gioco parlamentare, dove a decidere sono sempre i poteri forti, per questo diserta le urne, basta guardare le percentuali dei votanti. La legge che ho contribuito a proporre si chiama Sviluppo rurale integrale, ovvero non riguarda solo l’agricoltura, ma lo sviluppo sociale integrato a cui sono interessati tutti i settori, da quello educativo a quello sanitario, dell’abitare…
Necessita di un Ministero dello sviluppo, ma l’oligarchia si oppone, dice che si tratta di comunismo e che metterebbe in pericolo la proprietà privata.