Herman Grimm e la distruzione di Roma
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Divano La rubrica a cura di Alberto Olivetti
Figlio di Wilhelm, autore con il fratello Jacob della celeberrima raccolta Fiabe del focolare, allievo di Leopold von Ranke, professore di storia dell’arte all’Università di Berlino, Herman Friedrich Grimm (1828-1901) a ventinove anni, nel 1857, per la prima volta soggiorna a Roma e Roma elegge a città dell’anima. A Roma, alla «fine di gennajo del 1886» scrive, idealmente rivolta alla intellettualità italiana ed europea, una ‘lettera’ sotto il titolo di La distruzione di Roma, e la pubblica sulla Deutsche Rundschau. Con lodevole tempestività essa fu tradotta da C. V. Giusti e pubblicata a Firenze nel marzo di quell’anno dagli editori Loescher e Seeber.
«Quando, dopo un’assenza di dieci anni», scrive Grimm «tornai a Roma nell’autunno scorso, le impressioni che provai furono inaspettate e penosissime. Vidi che si era in procinto di distruggere moralmente Roma nel trasformarla a metropoli del regno (…) Lessi poi nella «Nationalzeitung» lo scritto di Gregorovius: In difesa di Roma contro la presente distruzione». Tra i romani, continua Grimm, sembra che ci sia «una minoranza di persone che sentono quanto sia trista e vergognosa la faccenda; son persone attempate che san valutare quello che va in rovina. Però han dovuto piegare il capo e cessare la lotta». Infatti, a sentire il parere di chi è impegnato alla ‘distruzione’ «vi vanta, riporta Grimm, il rincaro del suolo fabbricativo, l’accorrere degli operaj, l’aumento dei salarj. Così tanta sicurezza vi mette sotto gli occhi il solo lato economico della questione e niente altro».
La lettera di Grimm denuncia, nella città di Roma non appena fatta capitale d’Italia, un modo di procedere nell’abbattere e nel costruire che opera attenendosi alla regola dello scempio e dell’edificare brado inteso ad alimentare, senza sosta e drasticamente, la speculazione più iniqua e più redditizia. La nuova classe dirigente dell’Italia unita, di concerto e in sodalizio con la aristocrazia romana (che si rivela tanto ignobile) mette mano senza indugi alla distruzione di Roma procedendo, tra i paludamenti di retoriche bolse, inarrestata e vittoriosa sempre, da centocinquant’anni ad oggi e, tutt’ora, vigorosamente all’opera.
Grimm non crede che, riguardo alla distruzione di Roma inesorabile e così ben avviata, si tratti «d’incapacità, di mancanza di adeguato sentimento storico». Riprende piuttosto l’invettiva lanciata da Gregorovius che «sebbene con un giro di frasi da attenuare possibilmente l’offesa, si è servito nel suo scritto della parola ‘Vandali’. Noi domandiamo che cosa si intenda con questo». E aggiunge precisando che «si chiama vandalismo la volontaria, non necessaria distruzione». Grimm menziona come esemplare in proposito il caso di Villa Ludovisi distrutta: «Bellissimi viali ombrosi di querce e allori, qua e là framezzati da alti e larghi pini, tranquillità e aria balsamica, facevano della Villa Ludovisi, alla quale non era sempre facile l’avere accesso, uno di quei luoghi di Roma ch’erano nominati i primi quando si discorreva degl’incanti dell’eterna città.
Sì, io credo che se, guardando tutta la terra, si fosse domandato qual era il più bel giardino del mondo, coloro che conoscevano Roma avrebbero risposto senza esitare: la Villa Ludovisi». Valgano a conferma le parole di Stendhal: «abbiamo errato con delizia negli immensi viali alberati del giardino… cosa chiediamo di più a un posto così bello?». Henry James scriveva nel 1883 che non c’è a Roma «forse nulla di così bello. I prati e i giardini sono immensi. Là dentro v’è di tutto: viali oscuri sagomati da secoli con le forbici, vallette, radure, boschetti, pascoli, fontane riboccanti di calami, grandi prati fioriti, punteggiati qua e là da enormi pini obliqui».
Tre anni dopo Grimm mestamente annota: «Il profetizzare che sotto il nuovo governo la villa dovesse andar distrutta, come oggi accade, e gli allori, le querce e i pini abbattuti, come oggi li vedo abbattere, sarebbe stato allora un’offesa, che né anche il più acerbo nemico della nuova Italia avrebbe osato recarle, perché sarebbe sembrata una enorme follia».
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