Ci sono riletture che inducono, direi in maniera naturale e senza sentirsi troppo in dovere di chiedere scusa a se stessi e agli altri per la propria antica e giovanile goffaggine intellettuale, a un onesto esercizio di autocommiserazione. Le cose che un tempo non volevamo o non potevamo capire, quelle che ci avevano infastidito o addirittura irritato – e magari a causa della loro chiarezza allora per noi insondabile proprio in quanto radicalmente, volutamente emendata da ogni forma di senso multiplo, di disseminazione semantica (malgrado ciò che se ne dice, la gioventù avversa la luce, il limpido dettato, l’impietoso orizzonte aperto e luminoso; e inoltre l’immaturità mal sopporta altri ego oltre al proprio) –, ecco ripresentarsi di colpo in una veste nuova, del tutto inedita, a indicarci la trascorsa indifferenza, la strafottenza, la supponenza di una stagione per fortuna (e non sempre si presume che accada) ormai sfatta o rinsecchita al pari di un frutto nato da un ramo storto. Quella postura si trasforma in rossore, in vergogna, in rimorso, in rimpianto.

Così, ad esempio, quando lessi per la prima volta I libri nella mia vita del grande Henry Miller – era il 1976 e il volume venne pubblicato da Einaudi nella magnifica versione di Bruno Fonzi ora riproposta da Adelphi («Biblioteca», pp. 414, euro 24, 00) – ne ricevetti un’impressione quanto meno parziale e disossata, tutta virata sul versante dell’avventura a ritroso, del gioco a rivelare della memoria, del divertimento e della consolazione (di natura, mi pareva, pressoché senile) a recuperare congiunture e congiunzioni sprofondate ormai nell’oblio di una vita già o troppo carica di incontri, di relazioni amicali, di influenze donate e ricevute – come se questo non fosse di per sé abbastanza e necessario, o non indicasse al lettore, insieme a una poetica, un progetto di fraternità, una fantasia di avvicinamento, una comune griglia di respiro o, se si preferisce e più semplicemente, un metodo morale. Nel 1976, con un portato assai esiguo di memoria e di esperienze, io credevo, con giacobino furore, con assoluto e cieco convincimento, che un libro fosse soltanto un libro e che un’opera letteraria si riflettesse in me mediante un bagliore esclusivo e irrelato, lasciando fuori la vita e il mondo, l’impura vita e il vile mondo, con le loro (ora lo so bene) meravigliose, imprevedibili, sorprendenti circostanze ed evenienze.

Per Miller è l’esatto contrario. Egli decise di scrivere I libri nella mia vita all’approssimarsi dei sessant’anni, dunque dopo il glorioso decennio parigino (in Francia erano nati alcuni dei suoi capolavori: Tropico del Cancro nel 1934 e Tropico del Capricorno nel 1939; ma anche Max e i fagociti bianchi nel 1938), il cruciale viaggio in Grecia sotto la guida e in compagnia di Lawrence Durrell (Il colosso di Marussi è del 1941) e, a seguire, l’ininterrotto peregrinare in lungo e in largo per gli Stati Uniti durato circa due lustri, prima di fermarsi definitivamente a Big Sur, in California. Qui – e fu uno dei primi atti compiuti in quella casa che da subito diventò un mare aperto a gruppi persino organizzati di anonimi visitatori che quasi sempre finivano per confessare all’ospite di non avere mai posato nemmeno uno occhio su un solo rigo delle sue opere, così celebri e celebrate da consentire addirittura l’esenzione dalla lettura – per lui si aprì l’epoca della ricomposizione, della ricostruzione minuziosa di ogni debito, di quanto cioè doveva ai molti che lo avevano fatto crescere, maturare, giungere sino a lì.

I libri rappresentano non di meno l’epifenomeno di un cammino dovuto alle generose elargizioni degli dèi del caso e della necessità. L’amicizia regna sovrana in quest’opera di devozione e insieme di ricognizione conoscitiva che affonda le proprie radici, rendendole salde e ben piantate, nel campo minato e pur tuttavia sfarzoso e regale della vita – il termine, nella sue varie declinazioni, più ricorrente, e la cui pronuncia, ariosa e serena, è come se accompagnasse le tappe di un’ascesi senza fine. Sul fatto che lo sguardo di Miller sia appunto ascetico non corre alcun dubbio, e non tanto perché sempre più serrata appare la vicinanza spirituale ai maestri della sapienza orientale. O perché – lettore privo di pregiudizi e dalla mente aperta – si dice ammirato da Centurie e presagi di Nostradamus o dalla Dottrina segreta di Madame Bravasky, ammirazione, quest’ultima, che il razionalista Houdini avrebbe disapprovato senza appello.

No, la ragione autentica, profonda, per certi versi rivelatrice dell’inclinazione mistica dello scrittore, sta innanzitutto nella meravigliosa facoltà di individuare, andando a ritroso nel tempo, i piccoli maestri che ha avuto la fortuna di incontrare fin dai tempi dell’adolescenza trascorsa nelle strade e nei parchi di Brooklyn, dove era nato nel 1891, insofferente ai canonici, spesso boriosi, insegnamenti scolastici e invece attratto dalle scoperte selvagge, irregolari. Tanti maestri anonimi, allora, e di cui nemmeno ricorda più il nome, affollano questa autobiografia che andrebbe letta a partire dal capitolo intitolato «La storia del mio cuore», dove incontriamo un ragazzo che Miller decide di chiamare Louis, un déclassé viene definito, un «senzapatria», privo di origini, il quale «staccato, separato da tutto, si mescolava col mondo solo in virtù d’una sorta di sublime condiscendenza». Louis, ricorda Miller, ogni tanto introduceva nel discorso un paio di parole oscure. Era come se parlasse Mosè («parrà strano», dice altrove, «ma a me sembra che soltanto i grandi interpreti della letteratura possano rivaleggiare con un ragazzo di strada quando si mette a estrarre l’aroma e l’essenza di un libro»). Non alle menti di ognuno pareva interessarsi, ma alla Mente, di cui pareva voler rivelare agli altri la «natura essenziale» e inesplicabile. Non deve stupire che Louis se ne stia accanto a Krishnamurti, essendo al dunque entrambi portatori di luce e di conoscenza. Scrive in premessa Miller: «Considero i miei incontri con i libri alla stessa stregua degli incontri con altri fenomeni della vita e del pensiero. Tutti gli incontri sono connessi tra loro, non sono isolati. In questo senso, e in questo senso soltanto, i libri sono parte della vita quanto gli alberi, le stelle, o il letame. Io non ho alcuna reverenza per i libri in se stessi. Né pongo gli scrittori in una categoria speciale, privilegiata». Allo stesso modo uno scrittore per ragazzi può stare accanto a Dostoevskij, lo «spirito oceanico» di Blaise Cendrars accanto a quello fluviale di Eugènr Sue, Rider Haggard e Jean Giono di fianco a Whitman ed Emerson.

Nonché estatico, quello di Miller è inoltre uno sguardo democratico attratto al medesimo grado di temperatura dalla contemplazione e dall’impulso avventuroso, vitalistico. Da un tale apparente cortocircuito egli si lascia irretire con cuore magnanimo. Ammira Gesù e Buddha, ma anche la «mano sinistra» di Cendrars, quella mano con cui «si è aperto il varco attraverso le giungle, si è difeso nelle risse, ha sparato a uomini e animali, ha dato pacche sulla schiena ai suoi compagni, ha salutato con una calorosa stretta di mano un amico che non vedeva da tanto tempo, e ha accarezzato le donne e gli animali da lui amati». Il grande, irredento e irriducibile Miller, apprendista e maestro.