Le grandi opere della letteratura mondiale – ha scritto David Damrosch, studioso a Harvard di World literature – sono quelle che ‘guadagnano’ quando vengono tradotte. Del resto, la ricezione dei classici è da sempre scandita da passaggi editoriali che ne determinano la fortuna e il destino: ogni nuova traduzione si costituisce come l’occasione per rileggere, con una attitudine interpretativa diversa dal passato, anche – se non soprattutto – autori che da tempo fanno parte del canone della letteratura. Henrik Ibsen è tra questi: un nuovo Meridiano gli è appena stato dedicato, capace di recuperarne la voce in tutte le sue espressività, offrendosi quale strumento per conquistare alle sue opere – come Ibsen stesso intendeva – nuovi significati e una rinnovata vitalità.

L’immagine complessiva dell’autore norvegese beneficia qui dei risultati più aggiornati degli studi a lui dedicati, che partono, intanto, dalla rivalutazione del suo contesto di formazione. Ibsen trascorse la giovinezza sulla costa orientale della Norvegia, che lasciò nel 1850 per lavorare come istruttore di scena e drammaturgo nei teatri di Christiania (l’attuale Oslo) e di Bergen. Rispetto ai centri della cultura europea, quello era un contesto periferico: da qui il mito del vate solitario, che giganteggia su uno sfondo desolato. Il viaggio che Ibsen intraprende nel 1864 verso l’Italia e la Germania, dove risiederà per quasi trent’anni, è stato letto di conseguenza come un «esilio volontario».

Oggi, tuttavia, ci è più chiaro come il contesto norvegese, provinciale sì ma anche intellettualmente vivace, offrisse elementi particolarmente favorevoli allo sviluppo di una sensibilità letteraria, nutrita da un bagaglio di letture – da Shakespeare a Schiller a Goethe a Kierkegaard – i cui frutti sono evidenti in tutta la produzione di Ibsen. Che aveva, peraltro, del lavoro teatrale una conoscenza diretta, maturata attraverso la sua giovanile esperienza professionale mai esaurita, come mostrano le sue raccomandazioni ai teatri affinché prestino attenzione alla messinscena, all’arredo, alla selezione degli attori, a una recitazione naturale e realistica.

Le si può leggere, oggi, in Drammi borghesi, il Meridiano Mondadori dedicato a Ibsen, curato e tradotto da Franco Perrelli (pp. 1800, € 80,00) che ne raccoglie i dodici drammi della maturità, di ambientazione contemporanea (’borghese’, appunto): dalle Colonne della società (1877) a Quando noi morti ci destiamo (1899). Sono di questi anni capolavori che rivoluzioneranno la storia del teatro europeo: Una casa di bambola, Spettri, Un nemico del popolo, L’anitra selvatica, Rosmersholm, La donna del mare, Hedda Gabler, Il costruttore Solness, Il piccolo Eyolf, John Gabriel Borkman.

La possibilità di avere riunite opere che offrono così uno sguardo completo sulla più celebre produzione di Ibsen consente ai suoi temi principali di emergere trasversalmente ai singoli testi; e al tempo stesso, di vederci restituita – a seconda del contesto e dell’epoca in cui venne letta – ora l’enfasi sulla ispirazione naturalista, ora sugli elementi più simbolici, ora la sua lettura come paladino dei diritti delle donne, benché lo stesso Ibsen abbia tenuto a precisare, in un discorso tenuto nel 1898, di non considerarsi affatto portavoce della causa femminile, più di quanto non lo sia stato per la psiche degli esseri umani nel loro complesso. Le figure femminili dominano, comunque, molte delle sue opere, a partire dalla più celebre, Nora, la protagonista di Una casa di bambola (l’articolo indeterminativo è troppo spesso tralasciato, ma di certo venne scelto non a caso), che prende coscienza di come la sua vita sia stata determinata dal padre prima, e dal marito poi, e decide dunque di lasciare la casa coniugale e i figli per capire innanzitutto chi sia lei stessa.

Altre donne, altrettanto complesse, si affacceranno da opere successive, e fra queste la signora Alving di Spettri, che dopo avere rinunciato alla propria felicità per sacrificarsi al ruolo di madre, pagherà le conseguenze delle proprie scelte; o la protagonista della Donna del mare, che incarna la tensione tra convenzioni sociali e desiderio di libertà; fino alla controversa figura di Hedda Gabler, che, imprigionata in un ruolo sociale in cui non si riconosce, cerca di vivere manipolando chi le sta intorno.

All’appello dei temi di attualità non mancano le questioni ambientali e quelle relative all’inquinamento di origine industriale, casi riportati fra le pagine di Un nemico del popolo, che porta sulla scena conflitti derivati dall’interesse economico. Del resto, che si sviluppi tra ruoli familiari, tra ideale e realtà, tra individuo e società, in tutti i drammi, alla base delle dinamiche che muovono l’azione, c’è una qualche forma di conflitto.

La nuova traduzione ha il pregio di tenere conto dei suggerimenti e delle interpretazioni offerti dallo stesso Ibsen, per esempio tra le righe di lettere inviate ai traduttori coevi: un’ampia scelta di documenti, in parte mai tradotti prima, ci presenta stesure preliminari, discorsi, corrispondenze, che aprono uno scorcio per noi inedito sulla vita e la personalità di Ibsen, affiancando alla testimonianza dello scrittore quella del carattere, delle contingenze biografiche, delle preoccupazioni: per esempio quella espressa al suo editore affinché i propri libri arrivino in Scandinavia in tempo per il periodo natalizio, più favorevole agli acquisti.
Questioni di finale

Tra le vicende ricostruite c’è anche il dibattito sul finale di Una casa di bambola, per il quale Ibsen aveva previsto l’abbandono del tetto coniugale da parte della protagonista, finale inizialmente ritenuto come irricevibile. A suscitare scalpore non era il fatto che Nora lasciasse il marito, ma che venisse meno al suo ruolo di madre abbandonando i figli: in una lettera del 1891, a proposito di Luigi Capuana, che riteneva intollerabile per la sensibilità del pubblico italiano questo epilogo, Ibsen espresse la sua contrarietà; ma per la prima rappresentazione a Berlino, lui stesso si rassegnò a scrivere un finale alternativo in cui la protagonista, facendo violenza a se stessa, rimane in casa per amore dei figli.

All’epoca – spiegò lo stesso autore – non sarebbe stato in grado di imporsi, e dunque tanto valeva evitare che, in assenza di tutela del diritto d’autore, qualcun altro scrivesse un finale non più sotto il suo controllo.
Al di là della possibilità di vedere a teatro i drammi che Ibsen scrisse scientemente per la scena, il senso della lettura dei suoi testi ce lo restituì lo stesso autore, in una lettera del 1877 riportata nel Meridiano, in cui sottolinea come la stampa permetta al lettore di concentrarsi sul dramma senza essere ‘distratto’ da altro: anzi venendo convocato, in quanto «compoeta» – avrebbe chiarito nel suo discorso del 1898 – a risolvere il destino dei personaggi, che la mano dell’autore aveva lasciato in sospeso.