Sfoglio un album di ritratti fotografici di Henri Cartier-Bresson (1908-2004). Ritratti che vanno dal 1928 al 1982. Il più antico è quello dello scrittore André Pieyre de Mandiargues (1909-1991). Mandiargues ha diciannove anni. Davanti a un negozio di formaggi, avvolto in un pesante pastrano spigato, gli occhi socchiusi, aspira profondamente il fumo d’una sigaretta. Dietro a lui il cartellone pubblicitario del parmigiano reggiano della ditta Bertozzi, eseguito nel 1924 dal celebre cartellonista francese Achille Luciano Mauzan. Come Mandiargues si inebria dell’aroma del suo tabacco, così, nel gran manifesto alle sue spalle, tre giudici con tanto di parrucca accostano certi loro poderosi nasi (degni di maschere della Commedia dell’Arte) ad una fetta di parmigiano appena tagliata dalla forma e si beano voluttuosamente di quel profumo ineguagliabile. Immagine impostata secondo le regole dei giochi surrealisti.

Mandiargues ha scritto: «Quando mi trovo di fronte a Henri Cartier-Bresson torno sempre, col ricordo, ai mitici anni 1930-1931 e ai successivi in cui, nel corso dei nostri viaggi attraverso l’Europa e dei vagabondaggi per le vie di Parigi, ho assistito alla nascita del più grande fotografo dei tempi moderni: in virtù d’un moto spontaneo, di una specie di gioco cui il giovane pittore si abbandonava, come altri si abbandonavano alla poesia». Cartier-Bresson in quell’anno 1928, si appassiona alle teorie dei surrealisti ed alla pittura, pittura che studia a Parigi nell’atelier di André Lothe. Alla fotografia (e per tre anni, fra 1936 e 1939, al cinema, assistente alla regia di Jean Renoir) si dedica senza intermissioni fino al 1971, quando decide di tornare alla sua prima passione, la pittura e, specialmente, il disegno. Cartier-Bresson pubblica nel 1952, presso le parigine Editions Verve, Images à la sauvette (la copertina del volume è di Henri Matisse) titolo che suona in italiano ‘immagini all’improvviso, in fretta, e di nascosto’. E, del resto, non diciamo ‘scatto fotografico’. Dove scatto si dice «nel proprio», come insegna Tommaseo nel Dizionario dei sinonimi, «di molla che toccata si muova e sospinga» (e qui è del meccanismo che apre l’obiettivo della macchina) ma, (ed è bene tenerlo presente), «nel traslato dice di maggiore impeto» e di «primo lancio»: lo slancio, la rapidità, il captare repentino, all’impronta, a prima vista.

E, senza dubbio, scorrere questa galleria di ritratti, ci pone nella condizione di coglier a nostra volta noi quanto Cartier-Bresson ha afferrato d’uno sguardo di Ezra Pound, penetrante nell’ombra che ha posata sul volto; o nel gesto della mano di Carl Jung che mantiene avvolta la pipa nella sua nuvola di fumo; o l’immobilità vigile del falco che fissa Samuel Beckett assorto in un suo lontano pensiero. Ma questo ‘cogliere’, questo ‘afferrare’ proprio dei ritratti come lo ottiene Cartier-Bresson? Diresti non con i modi del fotografo, ma con quelli del pittore. Non grazie ad uno scatto ma in virtù d’una posa. A questo proposito Ferdinando Scianna ci avverte: «Il ritratto, dice Cartier-Bresson, è il contrario dell’immagine presa à la sauvette, fulmineamente, di nascosto. Per fare un ritratto bisogna domandare udienza e ottenerla; poi occorre raggiungere una sintonia con la persona fotografata, fino alla connivenza. Un buon ritratto è frutto di una reciproca disponibilità».

Gli editori americani di Images à la sauvette mutarono il titolo francese in The Decisive Moment. Scianna riporta in questi termini una riflessione che ebbe modo di ascoltare da Cartier-Bresson riguardo alla posa fotografica: «La difficoltà sta nel fatto che bisogna parlare, ascoltare e, mantenendo la macchina incollata all’occhio, continuare a guardare, o meglio, a vedere. Che cosa mai, infatti, è più fuggitivo di un’espressione, di quella misteriosa armonia nella dissimmetria di ogni volto, momento decisivo come nessun altro, che a saperlo cogliere diventa ritratto?».
Quel momento decisivo che realizza fotograficamente un ritratto, sembrerebbe concentrare in una immediatezza colta al volo quanto il pittore vien componendo in un continuo avanti e indietro, quel filare armonico tra l’occhio, il volto in posa e la mano.