Il celebre Séminaire di Hélène Cixous fiorisce da quasi cinquant’anni e la sua cronistoria debutta nel 1974. Grazie a una ambiziosa pubblicazione cartacea appena edita da Gallimard, i seminari che si trovano raccolti in Lettres de fuite riescono a misurare il peso di questa pratica ripetuta. Attraverso un incamminamento del pensiero che tocca la realtà storica dei primi anni del nuovo millennio, Cixous costruisce dei percorsi sinuosi attorno al tema della vita e della morte, della perdita e della guerra. Raccogliendo i frutti della lettura dei testi di Eschilo, Kafka, Joyce, Bernhard e soprattutto di Proust la scrittrice e drammaturga francese interseca continuamente storia e letteratura, in un abbraccio non serrato in cui la letteratura rappresenta la scappatoia per eccellenza dalla violenza della storia e l’arte della parola la scala per l’evasione dal tempo.

Hélène Cixous ha continuato i suoi seminari parigini del sabato alla Maison Heinrich Heine fino al 15 febbraio 2020, fino alla sospensione a causa della pandemia. Nel 2021 riprende con la solita cadenza mensile, ma online, riprendendo il titolo della commedia shakespeariana As you like it, sottotitolando gli incontri «Dans la Cage» (Nella Gabbia). Di prigionia e imprigionamenti parla Ruines bien rangées, uscito in Francia in concomitanza al volume Séminaire, anch’esso presso Gallimard. Cixous ritorna a Osnabrück, città della Bassa Sassonia dove è nata sua madre, Éve Klein, ma che è anche la città-finzione (pertanto reale) dove inizia il viaggio della voce narrante.

Di come raccogliere questa memoria chiediamo conto a Hélène Cixous che parla con sguardo lontano e grandi occhi corvini nella sua casa del XIV arrondissement di Parigi.

Nell’introduzione al volume del «Séminaire» Marta Segarra fa riferimento alla questione della vulnerabilità. Si riferisce esattamente alle parole che lei ha pronunciato il 13 marzo 2004, alludendo alla «fragilità della letteratura», disarmata e assolutamente indispensabile. Attraverso quali voci la letteratura può rammentarci la nostra stessa vulnerabilità, quella che abita i nostri corpi e il vivente?
La letteratura attraversa il tempo, trasporta nel paese dotato strutturalmente d’eternità, è un mondo che rianima, un mondo di resurrezioni, un universo che fruisce di una libertà inalienabile. Attraversa le guerre, i massacri, le estinzioni, resta, resiste. L’attributo di fragilità della letteratura è legato al fatto che i supporti che la contengono possono scomparire: si pensi alla Biblioteca d’Alessandria, o a che fine hanno fatto le decine di tragedie di Eschilo, sepolte sotto le coltri stratificate della città di Napoli. I libri subiscono questa sorte. Tuttavia ne restano dei frammenti e di quei frammenti si fa portatrice la letteratura attraverso i secoli: la trasmissione è uno strumento inestinguibile, attraverso di lei la letteratura mondiale si nutre di tutte le opere, al di là delle lingue in cui è scritta, attraverso una discendenza di cui fanno parte gli scrittori e le scrittrici. Le opere di Shakespeare, ad esempio, vivono, ritornano e rianimano Hugo, Dostoevskij, Genet e rianimano e rianimeranno l’immaginario degli scrittori e delle scrittrici del futuro – che aggiungeranno una voce alla voce. La letteratura è una scuola, una cultura, accultura ed è acculturata. La sua fragilità è legata alla nostra perché essa sopravvive attraverso la lettura, necessita della lettura. Gli esseri umani ne hanno bisogno. Sono stati i roghi di libri, a minacciare la grande potenza della letteratura, che è davvero il rifugio più democratico, in termini di accessibilità: un libro può stare in tasca come una scatolina di fiammiferi. La letteratura è fragile ma immortale e sempre giovane: quando leggiamo Tristano e Isotta capiamo davvero l’amore, aldilà del tempo che ci separa da quest’opera. Ne abbiamo un bisogno assoluto, soprattutto nella sofferenza.

Michel Leiris in «Miroir de l’Afrique» (Gallimard, 1996) giudicava le capacità immaginative dei Popoli Primi più libere, perché in grado di immaginare un pericolo potenziale. La figurazione del rischio, dell’ecatombe, del tragico ci avvicina alle pandemie ma anche alle guerre, così come avvicina questa capacità a quella di chi riesce a servirsi della lingua e della scrittura. La sua poetica è pratica dell’immaginazione della tragedia?
I Popoli Primi sono dovunque, tra di noi. La letteratura da dove viene? L’epopea di Gilgamesh, la Bibbia, l’Iliade, l’Odissea: la morte, l’odio, la distruzione ricorrono, continuamente e a monte risiede quello che si definisce in termini freudiani il desiderio di immortalità, capace di fugare l’angoscia di morte. Sono d’accordo nel definire la mia poetica in relazione alla tragedia, ma nel mio caso non si tratta di immaginazione di una tragedia ma di una esperienza, una tragedia vissuta. Il mio bisogno di scrivere è nato quando avevo dieci anni, alla morte di mio padre, è nato dall’esperienza e passato tramite il canale di traduzione che per me è stata la lingua. A quell’età mi chiedevo: di cosa mai posso scrivere? Poi mi sono data la risposta, capendo che dovevo scrivere di me, che avevo già fatto esperienza della morte – che è personale e insieme è anche l’esperienza dell’umanità intera – perché si scrive dell’esperienza del sé veicolata nello scorrere del tempo. Poi certo, ci sono casi eccezionali come Rimbaud che, nonostante e grazie alla sua giovane età, ha una lingua davvero precocissima, senza aver fatto esperienza della vita.

Nel volume «Séminaire», l’esordio coincide con il 10 novembre 2001. Lei parlava di date, di anniversari, glissando dall’11 settembre 2001 alla data dell’armistizio dell’11 novembre 1918 – fine della Prima Guerra mondiale – «di cui la fine non può essere la fine». Nella sua concezione del tempo, in relazione alla memoria, lei parla di trionfo del presente sul passato.
Le date, come gli anniversari servono a darci l’illusione di avere la possibilità di marchiare, di lasciare delle tracce nel tempo. Servono affinché la «macchina della memoria» sia nutrita e che il pensiero della morte sia temporaneamente evaso. Fluttuiamo nel tempo e ci altaleniamo in balia dell’atto di cancellamento che la morte rappresenta. Il presente è mantenuto grazie al nostro desiderare e la letteratura è capace di mantenere la traccia delle vite materiali degli esseri umani. Credo che il «c’era una volta» delle fiabe contenga la bellezza del racconto che si ripete, che si rinnova nel presente. In questo senso quando leggiamo l’Odissea di Omero niente è davvero passato.

In «Ruines bien rangées», sono presenti le vestigia dell’epoca carolingia, la sala in cui venne firmata nel 1648 la pace di Vestfalia, la torre delle torture di Osnabrück, della caccia alle 127 donne accusate di stregoneria e infine la «gabbia» con le macerie della sinagoga distrutta dai nazisti nel 1938 durante la «Notte dei cristalli». In Europa siamo circondati da rovine eppure esse sembrano scappare agli occhi di chi non vuole o non riesce a vedere. Perché sembra essere così difficile?
Le rovine parlano, è vero. I resti della sinagoga di Osnabrück sono come scheletri, in un ossario, che si esprimono. I cimiteri francesi invece, con le loro pietrificazioni borghesi tentano una monumentalizzazione della morte. La torre delle torture di Osnabrück è intatta, è lì, per rendercene conto bisogna volere ascoltare il racconto di quello che resta del passato. In Germania il culto della memoria è un esercizio che si lega alla prima scolarità, rientra nelle materie scolastiche; a Osnabrück per esempio si coltiva grazie alla celebrazione annuale della pace di Vestfalia in ottobre, durante la quale bambine e bambini partecipano a quella celebrazione incarnando la memoria di quel momento storico tanto decisivo per l’Europa. Il memoriale dell’Olocausto di Cora-Berliner-Straße a Berlino, col le sue stele disuguali e «partecipate» da chi attraversa la piazza, consente di vedere e di ricordare. Alcuni dei miei libri sono come queste stele: alcuni di essi sono stele parlanti.

Un capitolo di «Ruines bien rangées» si intitola «Récits bien rangés – Prisons». Parlando di prigionia il riferimento corre alla torre di Osnabrück, all’arresto della madre di Keplero e infine a quello di sua madre Éve nel 1962 ad Algeri.
La prigionia è per me un tema fondante. L’ho capito grazie alla letteratura. Negli anni Settanta facevo parte con Foucault e Deleuze, tra gli altri, del Gip (Groupe d’Information sur les Prisons) un movimento d’azione che aveva come finalità la presa di parola delle detenute e dei detenuti e la mobilitazione di intellettuali implicati nel sistema carcerario. Con Ariane Mnouchkine abbiamo girato tutta la Francia tentando di inscenare una pièce all’esterno delle prigioni, malgrado i blocchi ripetuti della polizia. La mia libertà era costituita dalla letteratura. Il resto erano le prigioni. Nel mio caso il tema della prigionia non esiste, o meglio esiste in quanto esperienza vissuta, mia e della mia famiglia: accerchiamento, persecuzioni, campi; che si tratti dell’esperienza della mia famiglia tedesca nei campi o della la prigionia della vecchiaia e della malattia. Le prigioni sono state onnipresenti, una questione quotidiana, familiare ma anche collettiva. Quando ascoltavo Fidelio di Beethoven, o leggevo Stendhal il fatto che si parlasse di prigioni per me era assolutamente normale, faceva parte della mia quotidianità. In Eve s’evade (2009) parlo della vecchiaia di mia madre in quanto prigionia; anche quella recente, del primo confinamento è stata una forma di prigionia. Per concludere direi che in termini filosofici io appartengo a due specie tra le specie umane che hanno esperienza della prigionia attraverso i millenni: in quanto ebrea e donna. Quindi ecco, non si tratta esattamente di fascinazione, si tratta della tessitura della mia esistenza e la letteratura è stata ed è la chiave per uscire da questi stati di internamento.